Verità e Abitudine. Esiste una Razionalità?

E se il sole davvero non sorgesse domani? Hume per primo ci ha portato a formulare uno dei dubbi forse più profondi del pensiero occidentale, nell’interrogarci fino a che punto il nostro sapere umano possa arrogarsi la possibilità di formulare leggi universali sulla base del proprio passato. Lungi dall’essere una mera elucubrazione filosofica, questo rimane uno dei più grandi problemi con ricadute pratiche a volte inaspettate.

Supponiamo per esempio che debba essere testato un medicinale. Chi ha il potere e la ragione di poter stabilire che un determinato trattamento sia considerabile come scientifico e sulla base di quali parametri? Perché teorie non accettate come vere lo diventano dopo tempo e perché ciò che era scientifico perde successivamente la sua validità?

Kant sostiene che la chiave della costanza del mondo sia un nostro modo trascendentale di sussumere l’esperienza, tale per cui siamo noi con la nostra ragione ad ordinare il mondo esterno. L’argomentazione di Kant, sebbene notevole, non tiene conto del fatto che teorie ritenute universali vengano poi smentite o superate da altre che le sussumano.

Di questo cambio concettuale si farà poi teorico il filosofo austriaco Popper, che con il concetto di falsificazionismo inserisce nel concetto di razionalità kantiana una maggiore flessibilità, mantenendone però lo spirito di netta demarcazione tra ciò che è scientifico e ciò che non lo è. Popper identifica nella possibilità di essere smentiti dall’osservazione empirica il criterio ultimo per poter parlare di scienza o, al contrario, di metafisica.

Filosofi successivi mettono in luce come le proposte di Popper fossero in realtà spesso disattese nella pratica. Evidenziando i processi storici che portano alla formazione di gruppi di teorie e la loro accettazione, Kuhn avrebbe poi successivamente introdotto il notissimo concetto di paradigmi scientifici. Ed è da questo concetto che riemerge il problema iniziale.

A detta anche di un certo filone di ricerca psicologica, il nostro modo di concepire la realtà è basata su schemi semplificatori che si auto rafforzano con il tempo. L’andamento dell’accettazione delle teorie ha sovente un andamento sigmoidale, con una crescita lenta iniziale, un decollo successivo e il raggiungimento di un limite superiore. Una tendenza che, per esempio, si osserva anche nello sviluppo delle innovazioni ma anche nelle epidemie. All’inizio le teorie di Galilei, la meccanica quantistica, sono stati considerati meri strumenti di calcolo per prevedere il mondo più che per dire come si manifestasse. A forza di sentirne parlare, però, con il tempo quegli espedienti di calcolo sono diventati per i più realtà.

Nel Novecento è rimasto uno dei temi più dibattuti il ruolo che la ripetizione di una bugia ha nel consacrarla a verità. Oggi i social polarizzano la popolazione per l’assenza totale di contraddittorio e l’insistenza con cui si propongono ripetutamente nel proprio “feed” gli stessi temi. Ma se questo si riferisse anche alla scienza stessa? Se i bias di ricerca di ordine e di razionalità del reale, che gli economisti comportamentali hanno identificato, si potessero applicare anche alla comunità scientifica e alle teorie scientifiche stesse? Tornando alla domanda iniziale, cosa permetterebbe di dire alla casa farmaceutica che il nostro farmaco sia scientifico o meno?

Il problema è serio. Scavando nel profondo ci si chiede se sostanzialmente il nostro modo di vedere il mondo sia un continuo (fallito e illusorio) autoconvincimento di ricerca di ordine o se effettivamente, pur nei limiti umani, qualcosa di accettabile esista. Spesso, per esempio, si sottovaluta che i papers scientifici, anche peer-review, sono soggetti nella loro selezione a bias che sono stati studiati rigorosamente.[1]

Qui propongo una soluzione teorica, che rimane ovviamente discutibile e rigettabile. Esiste una ragione teorica metodologica che distingue tra scienza e non-scienza sulla base del rigore e del controllo empirico delle teorie. Essendo teorica, rimane un modello astratto di riferimento, quasi morale, a cui gli scienziati devono conformarsi. Accanto ad esso coesiste il mondo della reale pratica scientifica che, come gran parte del mondo reale, è soggetto a errori, rumore e omissioni. Ciò comporta che fuori dall’astrazione, gli scienziati effettivamente siano soggetti ad alcune distorsioni che a volte possano limitare una scientificità totale. Ma ciò non toglie che esista un processo di continuo raffinamento di convergenza progressiva al modello astratto che ha reso la pratica scientifica, pur nei suoi limiti, più scientifica per i criteri che abbiamo delineato. Il sistema peer-review è relativamente recente. Sempre più dati e di maggiore qualità accompagnano il lavoro degli scienziati. La razionalità astratta corregge la pratica rimanendo però esterna universalmente ad essa. L’errore o la formazione della teoria rimane l’anticamera del tribunale che poi deciderà se essa sia meritevole o meno di entrare nell’aula della verità scientifica. Anche l’ipotesi dell’inconsistenza di qualsiasi ordine e teoria, si presenta essa stessa come teoria e ordine e, in definitiva, si dimostra insussistente collassando su sé stessa.

Per concludere, è bene rimarcare un ultimo aspetto. La scienza non è metafisica. Non parla di cosa sia il mondo ma di come sia il mondo. Ed essendo un processo tipico di un essere limitato quale l’uomo, è plausibile accettare che si trovi nel limite della validità la validità del limite.


[1] https://www.economist.com/science-and-technology/2022/09/14/an-influential-academic-safeguard-is-distorted-by-status-bias