“E la verità, prima che faccia a faccia, si manifesta a tratti (ahi, quanto illeggibili) nell’errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutto intesa al male”
Umberto Eco, “Il Nome della Rosa”
Delineate le tre ipotesi principali intorno alle forme di relazione possibili intercorrenti tra la Verità (nei vari significati che le abbiamo attribuito) e la Ragione (intesa come facoltà complessiva del soggetto di conoscere ed interpretare il mondo), ed appurata l’impossibilità (almeno allo stato attuale) di dimostrare univocamente la correttezza di una o delle altre, occorre procedere dialetticamente nell’analisi di ognuna di esse, tentando di individuare, tra i tre proposti, il modello che, seppur non assolutamente, rispetti ed approssimi maggiormente i criteri di valutazione e giudizio propri dell’intelletto. Si tratterà dunque di costruire, in assenza di una verità formalmente dimostrata, i caratteri di una ragionevolezza sostanzialmente argomentabile.
Eppure, già in queste prime righe, e addirittura nel testo che le ha precedute, si è manifestato un paradosso: il solo fatto di presentare tre ipotesi interpretative, affermando che una e solo una di esse possa risultare veritiera (seppur indimostrabilmente), ed attribuendo loro una valenza razionale intrinseca, presuppone che sia possibile formulare proposizioni normative di carattere universale. Presuppone, insomma, l’esistenza di una razionalità condivisa e oggettiva (se poi tale oggettività sia determinata dal soggetto pensante, o sia invece interna all’oggetto pensato, è questione da rimandare alla disputa già tratteggiata tra la prima e la seconda ipotesi). Il relativismo assoluto non può di per sé fondarsi, poiché affermare l’inesistenza di una verità universale implica necessariamente la postulazione di tale inesistenza in quanto verità universale. Si cade, cioè, in una contraddizione pragmatica, tra il contenuto di quanto si afferma e le sue conseguenze logiche riflesse. Per dirla in parole povere ma esplicative, è il bue che dice cornuto all’asino. Questa argomentazione (inizialmente elaborata come confutazione dello scetticismo) mantiene ancora oggi la propria rilevanza, ed enuncia l’impossibilità di una formulazione teoretica del prospettivismo radicale, relegandone l’ambito di applicazione alla mera dimensione pratica individuale. Si può essere coerentemente scettici soltanto essendo congiuntamente scettici anche del proprio scetticismo, accettando dunque l’impossibilità di porre come verità universale l’inesistenza della stessa. Per tale ragione il relativismo assoluto non può essere accettato come ipotesi completa e risolutiva, ma deve essere ridimensionato e sussunto nel ruolo (pur fondamentale) di idea regolativa, di disposizione spirituale al dubbio sistematico, e dunque di tensione alla verifica continua di premesse e conclusioni. Se abbiamo parlato generalmente di indecidibilità in precedenza, indifferentemente rispetto alle tre possibilità delineate, è opportuno determinare che nel terzo caso si presenti specialmente un profilo di ateoreticità radicale, che ne limita la pretesa di valenza logica al solo ambito pratico.
Per quanto riguarda invece l’alternativa tra l’ipotesi realista (la prima) a quella idealista (la seconda) è opportuno richiamare l’impossibilità di dimostrare formalmente l’una o l’altra. Incapaci di provare assolutamente, dunque, non possiamo che argomentare ragionevolmente. Il vulnus fondamentale del realismo risiede nella dimensione mistica che presuppone ed implica necessariamente. Affermare che cosa e pensiero siano regolati dalle medesime leggi perfettamente intellegibili equivale a postulare un’organizzazione razionale interna all’esistente, al di là dell’uomo, e, conseguentemente, aut ad alienare l’archè del logos in un soggetto creatore esterno ed originario (Dio, nella prospettiva abramitica) aut a pensare la stessa universalità delle cose e l’ordine che le è intrinseco come divinità incarnata nella materia (panteismo). Ad ogni modo, non si può porre il realismo senza sottintendere, anche inconsapevolmente, l’esistenza di Dio. Perché il principio fondamentale che lo caratterizza è la sussistenza di una verità assoluta, ossia priva di vincoli. E cos’è Dio se non la Verità Assoluta (ovvero l’insieme organico di tutte le verità)? E dato che l’esistenza del divino è a sua volta una questione indecidibile (anzi, la questione indecidibile per eccellenza), viene a crearsi uno sdoppiamento degli atti di fede (dei “salti nel vuoto”) necessari al sostenimento coerente di tale tesi. Perciò, seppur teoreticamente fondata, l’ipotesi fino ad ora osservata risulta esigere un apporto volontaristico maggiore, e dunque una più incidente componente extrarazionale.
Arriviamo infine alla valutazione della possibilità idealista (quella mediana, la seconda). Pur possedendo il carattere teoretico della prima, non ne condivide il maggiore onere fideistico. Ciò la rende, di conseguenza, nettamente preferibile anche alla terza, relegata al mero ambito pratico. La caratteristica principale dell’idealismo coincide con la “rivoluzione copernicana” iniziata da Kant, e compiuta da Hegel che, superando la contraddizione pragmatica interna al concetto di noumeno, la ha condotta alle sue necessarie ed implicite conseguenze. Determinando, infatti, il movimento dialettico della comprensione prima di tutto come atto creativo (e dunque rinunciando alla pretesa di sapere le cose per come esistono fuori di noi; perché al di là dell’uomo le cose non sono se non in quanto materia informe, se non in quanto essere fuori dell’uomo, e, dunque, se non in quanto mero esistere), ed intendendo l’oggetto della conoscenza non più come fatto esterno ma come atto interpretativo della ragione, perciò interno, assistiamo alla sublimazione dell’esistente nella sua unica forma intellegibile: la realtà, che è il divenire dell’intersoggettività creatrice. Ciò non significa che vi sia assoluta libertà gnoseologica: la comprensione è vincolata da molteplici leggi e regole di verifica. Ma significa che esse (le chiamiamo collettivamente logica) non siano proprie dell’oggetto prerazionale, che di per sé ancora non è pars dell’essere (al limite esiste, come abbiamo detto, ossia è incluso nella materia, percepibile perciò attraverso i sensi), ma siano caratteristica del soggetto conoscente, che dando un ordine al mondo esistente lo crea effettivamente, ossia lo rende ente.
Sembrerà forse che vi sia una forma di somiglianza tra il concetto di esistente sopra esposto e quello kantiano di noumeno. Non è così. Carattere fondamentale del noumeno è la sua inconoscibilità, il suo essere un confine che separa l’uomo dalla verità. Ma la sola ragione non può di per sé dimostrare l’esistenza di un limite alla propria capacità conoscitiva, senza cadere in contraddizione. Esso verrebbe infatti formulato nel pensiero, e dovrebbe dunque soggiacere ai medesimi meccanismi gnoseologici (dodici categorie, appercezione trascendentale…) propri della conoscenza del fenomeno (l’unica kantianamente autentica). Ma come può la ragione creare qualcosa che sia per definizione al di fuori di essa? Sarebbe come dire che una macchina adibita alla produzione di caramelle alla liquirizia, e solo caramelle alla liquirizia, dotata di tutti gli ingranaggi e gli strumenti utili, tutto a un tratto potesse incominciare a confezionare cioccolatini. O che una giumenta (con il suo specifico corredo genetico e sistema biologico) potesse, improvvisamente, partorire un vitello. O, infine, che un software programmato per selezionare casualmente un numero compreso tra zero e cento, potesse arbitrariamente scegliere il numero settecentotrentadue. Non è dato all’uomo porre coerentemente l’inconoscibilità radicale, perchè essa potrebbe essere pensata prescindendo dall’esistente, perciò creata, solo attraverso le categorie proprie della conoscenza, e risulterebbe dunque essere un’inconoscibilità conosciuta: l’autentica inconoscibilità è per definizione inimmaginabile ed impensabile, è fuori dell’umano, delle sue forme e dei suoi concetti; non può essere né dimostrata, né descritta, né argomentata, perché ognuno di questi processi gnoseologici appartiene alla ragione e non può riguardare qualcosa che sia al di fuori di quanto essa possa ordinare. Si è delineata una seconda contraddizione pragmatica. L’autentica inconoscibilità non è solo indecidibile: su di essa va radicalmente sospeso il giudizio; esiste come non esiste. Non ci è consentito nemmeno postularla teoreticamente, in quanto non è dato alla volontà ricondurre nella ragione ciò che per definizione nella ragione non può essere ricondotto. Può essere, semmai, solo sostenuta praticamente, in modo che funga da idea regolativa, da limite morale alla hybris gnoseologica dell’uomo. L’esistente al contrario è la materia in quanto oggetto in potenza della certezza sensibile, il mondo visto, udito, odorato, toccato ed assaporato prima di essere ricondotto nel pensiero, e dunque compreso. L’esistente è la materia fuori dell’uomo, a cui la ragione dà ordine e significato, sussumendolo nella realtà.
Ma di cosa sia la realtà, e di come sia strutturata la ragione, parleremo in seguito. Per ora la nostra riflessione , per quanto sbrigativa, si conclude. È sera ormai, il sole è calato, cominciano i primi freddi d’autunno: la nottola di Minerva può ora spiegare le ali, e spiccare il volo.
di Tancredi Bendicenti