Gli uomini sono stupratori, assassini, molestatori.
“Non tutti gli uomini!”, si sente esclamare dal fondo della folla. Non tutti, ma sempre gli uomini. “Anche noi siamo vittime!”: la frase più usata per spostare l’argomento dall’odio degli uomini nei confronti delle donne, un odio sistematico, culturale, viscerale, verso un problema sociale che ha più l’aspetto di una eccezione, che di una regola. Un’eccezione che sopravvive perché giustificata dallo stesso sistema malato, ma normalizzato, che uccide e violenta le donne. Un marito non denuncia la moglie perchè la donna non sarebbe mai capace di un simile gesto e, nel caso in cui lo fosse, l’uomo dovrebbe essere capace di fermarla. Un ragazzo non può essere molestato da un’amica, perché gli uomini hanno sempre voglia di sesso: dovrebbe ritenersi fortunato.
Quindi: sì, non tutti gli uomini; no, noi donne non siamo le uniche a soffrire del sistema patriarcale. Un sistema che prevede una differenza di trattamento e di valore tra i due sessi: gli uomini sono destinati a governare il mondo, le donne, esseri incomprensibili e squilibrati, sono destinate a tessere le fila da dietro le loro spalle. Come se il compito degli uomini fosse quello di fare grandi cose e solo quello di fare grandi cose. Il mondo è loro, se non riescono ad approfittarsene allora non ne sono degni. La conseguenza è che il 78,8% dei morti per suicidio sono uomini (indagine ISTAT, 2016).
Non vi è una natura intrinsecamente violenta nell’uomo in quanto tale. Non tutti gli uomini sono assassini e non tutti gli uomini sono stupratori. Ma la violenza non si esaurisce in una molestia carnale. La violenza è anche una battuta di troppo, un insulto sessista, un fischio per strada. Qualcuno ride e noi abbiamo paura di muoverci, di respirare troppo forte. Ogni nostra azione potrebbe avere conseguenze mortali: la fine di una relazione, un vestito troppo corto, una parola fuori posto. La paura più grande di un uomo è quella di essere denunciato per qualcosa che non ha fatto, la paura più grande di una donna è quella di finire mutilata in un acquedotto. È una paura tollerata, normale, quasi educativa.
Ci viene insegnato fin da piccole che è nostro diritto essere libere, stando sempre attente a chi non ci vorrebbe tali. Sì, la minigonna è bella, ma la minigonna potrebbe farmi finire drogata e buttata in un cassonetto. Si insegna alle donne come prevenire l’uomo ineducato, l’uomo violento. Come non rispondere alle provocazioni in strada. Non viene insegnato all’uomo a non agire in un certo modo, al bambino che alzare la gonna della sua compagnetta di classe non è un gesto simpatico né tantomeno di affetto. Viene insegnato alle bambine a sopportare, a non alzare mai la voce, ai bambini di essere forti e non di non tirarsi mai indietro.
La differenza sostanziale nell’educazione dei due sessi parte dalle banalità. Non tutti arrivano a compiere gesti estremi, non tutti arrivano a controllare o a seguire la propria fidanzata per paura di perdere quel senso di possesso che si ha su di lei. Ma tutti noi, uomini e donne comprese, abbiamo una concezione alterata della figura femminile in quanto tale, a partire dal modello di donna ideale: la donna diversa dalle altre, quella fuori dal comune. Iniziamo con il detestare le nostre compagne di classe quando hanno successo e continuiamo con il gioire della loro mancanza. Siamo progettate per rispondere a determinati modelli e a determinate esigenze perché è quello che ci viene detto che piace, il necessario per essere degne. Ci devono piacere gli sport maschili, ma non li dobbiamo praticare; ci devono piacere le macchine, ma non ne dobbiamo sapere più di loro; ci devono piacere i videogiochi, ma solo se non siamo troppo brave; dobbiamo essere sempre belle, ma senza sapere di esserlo; truccate, ma senza troppo trucco; naturali, ma rispondere a standard fisici fissati da supermodelle e celebrità che ricorrono alla chirurgia plastica. Tutto per non essere ‘come le altre’. Perché la nostra idea di donna media è la donna puttana, la donna cattiva, la donna manipolatrice: Eva che costringe Adamo a mangiare la mela. La donna media è tutto ciò che non dobbiamo essere. Noi dobbiamo essere forti e impavide, ma sempre al servizio. Dobbiamo essere sempre indipendenti, ma diventiamo mamme il momento stesso in cui iniziamo a parlare. Ci viene insegnato a prenderci cura di tutto e tutti, ad essere rispettose, argute e perspicaci, ma la nostra voce deve essere un sussurro. La donna che urla non è femminile, la donna che organizza vuole essere un uomo, la donna che dà i comandi e si fa rispettare è insicura. Dobbiamo lottare per avere un posto, ma la rivoluzione va fatta in silenzio.
L’uomo deve essere il nostro contrario: non si può mai tirare indietro, non si può mai fare da parte. L’uomo che si fa da parte è debole.
In un mondo in cui questi equilibri sono messi in discussione, in cui la donna nel mondo del lavoro sta avanzando e trovando una dimensione che le è propria, i residui di questa educazione di stampo misogino e patriarcale stanno avendo effetti devastanti. È qui che nasce la violenza. Si cerca di affrettare un cambiamento effettivo, senza considerare i preconcetti di cui siamo portatori.
Siamo tutti responsabili della morte di queste donne. Siamo tutti responsabili della morte di Giulia. Gli uomini che non riprendono gli amici sul gruppo del calcetto quando mandano la foto della ragazza nuda o quando fanno battute scorrette. Le donne quando si odiano e non si supportano a vicenda, quando sono invidiose dei traguardi altrui e si dicono cattiverie alle spalle, come se fosse necessario farci la guerra anche dall’interno.
Di questa cultura violenta siamo tutti portatori. È ora di prenderne atto e di essere noi a portare il cambiamento.
Flavia Gatti