In venti o trent’anni la maggior parte delle cose invecchia male: i partiti, le persone, le cristalline righe di un’idea rattrappiscono scadono nella parodica imitazione di sé stesse. Non i vestiti, non qualche idea in particolare. E tra queste idee dev’esservi il mercato globale. Quando ancora la globalizzazione era un traguardo, l’aspirazione all’universalità degli scambi, poter comprare tutto ovunque in qualunque tempo, non doveva parere così disdicevole.
Il sogno del mercato globale assommava in sé tutte le fantasie fabbricate dai filosofi dell’occidente in tre millennî. Si sa che il pungolo dei presocratici fu l’unde – quale sia il principio della realtà. E si sa ch’essi se ne interrogarono come i nostri politici s’interrogano sul numero di partiti da cambiare: uno, due o molti? Talete Anassagora Empedocle Leucippo s’imbarazzarono in una congerie di teorie tutte discordi. Di fronte al gran casino del mondo qualcuno vide un principio solo, qualcun altro vide doppio, e come in un giochetto colle anatre della gestalt nessuno aveva ragione. Le schermaglie di pluralisti e monisti si risolsero come tutte le altre: col tempo, nell’indifferenza. La soluzione intanto si fece strada nella realtà, in ritardo come solo l’alterigia schizzinosa e inutile della verità sa essere.
E la verità è che nel mercato sfilano infinite teorie di prodotti senza un atomo di materia in comune, innumerevoli serie di articoli reciprocamente estranei e irriducibili ad unità. Eppure, nel mercato tutto è merce. La varietà vorticosa degli oggetti si unifica sotto una forma comune: il mercato non discrimina, compra e vende. L’omnia venalia sunt di Giugurta non pare tutt’a un tratto una bel complimento? Se il mercato non ha che i limiti che gli imponiamo, comprende in potenza la realtà intera. Alla schiera di presocratici battibeccanti sul principio della realtà, unico o doppio, quadruplo o innumere, non poteva balenare un’idea simile. Pluralismo e monismo si riconciliano davanti a un carrello di Amazon.
Confesso d’essermi compiaciuto un po’ troppo davanti alle bancarelle. Fluide masse di individui dal moto discorde vagare per curiosità o con qualche astratta mira di un regalo, soffermarsi davanti a un cappotto sovietico degli anni ottanta, a delle camicie da comune sessantottina. Per una plotiniana emanazione che dal sommo arriva al minimo, i mercatini natalizi riflettono in nuce le virtù del grande mercato: ci frammentano. Il mercato è il modello della società futura, in esso la sterminata diversità di oggetti permette infinite bizzarrie del gusto, esorta ai cangiantismi di una libertà senza pensieri.
Tra molte facce dimenticabili, alcune sfoggiavano una stranezza inconsueta a Roma, banale covo di provincialismo. Si distinguevano dalla folla, come dirli se non strani? Incuranti di quel che gli stesse attorno. La stranezza dev’essere l’ultima misura rimastaci del progresso sociale.
È un concetto relativo, che si acuisce a grado a grado che cresce la frammentazione degli individui. Più siamo liberi meno avremo in comune, e più strani ci parremo a vicenda. La moda ne è il banco di prova, perché è sempre stata estrinsecazione dell’individuo, che fosse come singolo o seguace di un gruppo o membro di una classe sociale. Essa non chiedeva che una turbina ad accelerare le sue tendenze espressive: il mercato globale le ha aperto la porta a miriadi di mondi.
Siamo una società frammentata, ma il futuro non è in qualche rinnovellata agorà dove ragione e parola si esercitino per la sfera pubblica. Il futuro è monadico, il futuro sono incoercibili schegge di individui che corrono attraverso la vita senza fermarsi, come elettroni turbinanti nei circuiti di un atomo. Abbiamo poco in comune, finiremo ad avere ancora meno.
Il mercato globale stentò a sopravvivere nel mondo fisico. Eppure, sorto insieme ad internet, trovò in esso il suo migliore alleato. Era naturale: internet è un creator mundi a portata di click, una matrice di realtà ad nutum; culture e sottoculture vi proliferano in numeri a stento computabili. Su internet tutto muta in un istante. Flussi di dati viaggiano in moto perpetuo. L’unificazione dello spazio e del tempo era ciò che il mercato chiedeva ed internet gliel’ha fornito. Ma lì non si è fermato; perché una volta trapiantati nella realtà digitale, i germi del mercato hanno preso vita propria, si sono sviluppati in un organismo nuovo e impensato, pulsante a frequenze più veloci, più criptiche.
Così i mercati digitali hanno lasciato indietro quelli fisici di mille anni o più. E poi, invertendo la tendenza, hanno finito per portarli a sé. Se quei mercatini natalizi adombravano il mercato globale, è perché i commercianti hanno ragionato come se si trovassero su internet. Il mondo fisico è necessariamente più statico perché risente di noiose contingenze come lo spazio e il tempo, heideggeriane datità. Ma il mercato chiede di più, vuole tutto e subito. Su quelle bancarelle non c’era tutto ma c’era molto, che è meglio del poco cui siamo abituati. Si credeva che la realtà fisica avrebbe foggiato quella digitale, e la cosa va esattamente à rebours. Non credo ci sia più molto di blasfemo a dire che i mercati virtuali hanno plasmato i mercatini ad imaginem suam.
Ma perché la copia? Perché non l’originale? Nell’oppressione della calca mi sono chiesto più volte perché non comprassero direttamente su internet. I mercati fisici sono luoghi determinati e, per grandi che siano, irreparabilmente piccoli. Internet non conosce barriere, si estende per un’infinità di dominî in continue rivoluzioni. L’unico fascino che rimane alle compere in persona non può che essere la presenza altrui: il vantaggio economico l’ampiezza d’offerta la celere comodità testimoniano tutte a favore della rete; ma a sospendere il giudizio, a riequilibrare l’ago della bilancia pesa la solitudine dell’atto. Inspiegabilmente qualcuno trova piacere a sgomitare fra decine di potenziali concorrenti per un cappello di cashmere. Forse è un desiderio di incontri. O forse non è che un mezzo per disperdere il pensiero dal proprio ego; in tanti non cercano altro.
Tutto questo è temporaneo, dal momento che vanno appannandosi i confini tra realtà fisica e virtuale. I simulatori oggi fanno miracoli. Se le piattaforme di vendita online si aprissero alla realtà virtuale, cosa c’impedisce d’immaginarci a camminare con altri utenti tra gli scaffali di un Ebay o un Vinted, primi veri fruitori del mercato globale?