L’Affaire Ferragni: di Nastri ed Autoritratti

Viviamo tempi strani, in effetti. Ma, non di rado, alcuni eventi ed incidenti risultano essere curiosi persino nel panorama frastagliato della stranezza. Una stranezza generale che  potrebbe forse essere definita, più correttamente, norma. Se di norma sia più opportuno parlare in termini ontologici o deontologici, però, è questione da riservare ad altra sede e momento.

Tocca comunque vivere l’epoca che ci è stata data, dunque comprenderla, ideando ed elaborando gli strumenti ermeneutici che le sono necessari, astraendoli dal disordine della realtà, dandole forma in quelli che potremmo definire “canoni interpretativi”.

Il recente affaire Ferragni è uno di quegli eventi che, pur nell’insignificanza storica, risultano essere sintetici nella loro simbolicità, segni rilevatori dello zeitgeist odierno, delle sue storture ed ipocrisie.

Senza soffermarci sul merito della vicenda (che già tutti, in un modo o nell’altro siamo stati costretti a conoscere dal martellare incessante di post, articoli, video, storie e quant’altro: martellare a cui d’altronde si unirà anche questo testo) sarebbe utile approdare al suo significato, o almeno ad uno di quelli che le si possono attribuire.

Il videomessaggio in lacrime, il trucco disattento, i vestiti spenti e dimessi, le luci grigiastre sono tutti elementi contingenti di un modus operandi ed essendi ormai diffuso e radicato nel mondo della comunicazione antidialogativa (a riguardo sarebbe forse opportuno ricordare i quattro requisiti del Diskurs che sottolineava Habermas: correttezza, verità, veridicità, comprensibilità; sembrerebbe che nel caso di specie manchino almeno i primi tre).

Vi è, perciò, poco da stupirsene.

Ciò che invece risulta essere rilevante è la reazione, anzi, la soluzione immaginata: l’annuncio di una donazione, un atto di beneficenza che sembra avere natura quasi risarcitoria. Un obolo racimolato nei fondi delle tasche, che più che di carità sa di indulgenza. Una materializzazione del pentimento, una garanzia di perdono, vincolante (almeno nell’intento) per il pubblico.

Barabba! avrebbe dovuto esclamare la folla ammansita, commossa dietro gli schermi. L’influencer spogliata del suo sfarzo, dell’esteriorità che le ha dato fama e ricchezza, pronta a donare i suoi averi terreni ai bisognosi: un San Francesco redivivo. Un milione di euro: un uno seguito da sei zeri, una somma che solitamente non si vede neanche dopo quarant’anni di lavoro, offerta come fosse il proprio cuore pulsante. Davanti ad un gesto tanto eclatante chi, in buona fede, potrebbe negarle la grazia? Chi potrebbe dire “io sono senza peccato”, e scagliare la prima pietra? I fatti, presto o tardi, si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro.

Ma d’altronde siamo ormai abituati a trascurare quel concetto, centrale nella scienza economica, chiamato “marginalità”: la differenza tra quaranta (l’ammontare del patrimonio stimato di Chiara Ferragni) e trentanove milioni approssima lo zero, cosa diversa è quella tra 1 e nulla.

La nostra civiltà sta attraversando un cambiamento di paradigma, anche in ambito morale: passato è il tempo del “non sappia la tua sinistra cosa fa la tua destra”. Persino le valutazioni assiologiche, il discernimento tra bene e male, tra giusto e sbagliato, sono state esteriorizzate, dunque commercializzate, in un mercato onnicomprensivo, che tutto fagocita e ingoia, senza mai digerire. Un divorare senza senso o scopo che tende a sussumere l’infinito nell’uno, il tutto nell’unico.

Un’ipostatizzazione e materializzazione della morale, alienata in oggetti-feticcio: ogni scaffale è ricolmo di scelte cariche (anzi, caricate) di valenza deontologica; prodotti industriali che, se comprati, ci dimostrano e ricordano quanto siamo stati buoni (o cattivi). Basterebbe fare un bilancio a fine mese: chi più ha speso “eticamente” può di certo ambire al paradiso. Chi meno, si vada a confessare. Poco importa che una mela biologica costi il doppio di una normale. Per essere buoni, d’altronde, è condizione non necessaria, ma spesso sufficiente, essere ricchi.

Perchè nel nostro presente l’Uomo è come il nastro di Möbius: il dentro è fuori, il fuori è dentro, una superficie unica ed imitabile, intessuta di miriadi di scelte di consumo, registrate e profilate. Un Uomo che si costruisce e viene costruito, che dipinge un autoritratto non guardandosi allo specchio, ma copiando l’immagine artificialmente generata di sé stesso.

E chi si guadagna da vivere con l’esteriorità che si è forgiato, chi confonde sé stesso con il prodotto che vuole vendere, chi, per influenzare i consumatori, deve prima di tutto plasmare la propria autocoscienza , non può certo accettare o comprendere una lesione della propria immagine. Per questo mi dispiace, umanamente, per Chiara Ferragni. Perchè in lei si confondono sino a fondersi essere, esistere ed apparire, e dunque un danno alla reputazione (da sottolinearsi, giusto, perchè il fatto non rientri nella fattispecie prevista dall’art. 2043 cc) equivale ad una ferita da arma da fuoco.

È figlia del suo tempo, del nostro tempo, del presente ed inesorabile annientamento del pensiero nel formalismo vuoto della (non-)ragione strumentale. E proprio perchè figlia del nostro tempo le è dato di pensare che una donazione ex post possa farla “rimontare” in quel concorso a punti che è diventata la morale, rimetterla sulla lista dei buoni. Un colpo di bianchetto. Tutto perdonato e dimenticato, tabula rasa: via la tuta grigia e gli occhi tristi, si torni ai colori sgargianti, ai sorrisi, al lusso.

Ma così, stavolta, non è stato. La grazia dell’opinione pubblica e dei poteri economici, ritenuta dovuta, non è stata concessa, almeno per ora.

Da inguaribile ottimista vorrei poter dire che si è verificato un “risveglio della coscienza collettiva”. Da realista sono costretto a pensare che, in Italia, per indole e cultura, si prova spesso un certo piacere, volubile e proibito, nel vedere i propri eroi cadere.

Anche quando eroi, invero, mai dovrebbero essere stati.

di Tancredi Bendicenti