Un argomento divertentissimo come il decreto legge e la sua legge di conversione è irresistibile, ne abbiamo parlato tutti a tavola coi parenti durante le feste. Ma sarebbe troppo facile parlarne in termini rilevanti o almeno seri; sarebbe anche piuttosto inutile. A quello pensa la Corte costituzionale.
Su decreto e legge l’unica cosa che mi sembra giusto dire è che sono troppo lunghi da citare. Come c’è chi commenta le cravatte dei presidenti neoeletti, così qualcuno dovrà pur parlarne: perché quando si cita una legge di conversione si cita anche il decreto convertito? Perché un semplice rimando normativo cresce spropositato fino a occupare due righe e mezzo? Cita tre decreti legge e hai pronto un libro.
Non penso sia scaramanzia – una variazione del non dire gatto se non ce l’hai nel sacco, non dire legge se non hai decreto -, neppure un riguardo psicologico nei confronti di uno dei due, che senza l’altro si sentirebbe solo – e credo sarebbe la legge, abbastanza timida di questi tempi.
Che sia solo un’abitudine stupida, non compresa e riprodotta perché suona professorale e culta, come le giacche di velluto e gli occhiali? Sicuramente confonde chi ci sta davanti, il che deve piacere molto – Manzoni credeva di dipingere il vizio a chiare lettere nell’Azzeccagarbugli e invece ci ha dato un nuovo eroe nazionale.
Per quei pochi che lo fanno scientemente, è perché sono obbligati. Se citi la legge di conversione non puoi citare gli articoli e i commi, perché quelli stanno nel decreto legge. Ma se citi solo il decreto quel poveraccio che legge non saprà mai che il decreto è stato convertito, magari anche modificato. Grazie a questo bizzarro sistema di sosia e duplicati il decreto rimane tra noi anche dopo la conversione. Non rassegnandosi a morire continua a guardarci come il corpo imbalsamato di Bentham allo University College di Londra. E intanto sprechiamo tempo e fiato per citare la più minuscola norma.
Diamo pace ai poveri decreti. Basterebbe incorporarne il testo nella legge di conversione invece di scrivere una legge di un articolo e cinque righe che rimanda a un decreto scaduto. Si avrebbe in più il vantaggio di non dover fare la spola tra un testo e l’altro per capire dove ficcare le modifiche apportate in sede di conversione.
Il fatto è che nonostante tutti i libri di Seneca, la gente pensa di poter vivere per sempre. E quindi perché non raddoppiare tutto? Che era anche la filosofia dei petrarchisti cogli aggettivi. Ma se quella almeno ci ha dato l’Eneide di Annibal Caro e La natura delle cose di Alessandro Marchetti, qualcosa di buono in questa moltiplicazione delle fonti lo devo ancora trovare. Forse, a delucidarlo, ci penserà una circolare ministeriale.