Estratto dell’intervento di Tancredi Bendicenti alla Conferenza per la Giornata della Memoria tenutasi in Luiss il 25/01/2024
“Articolo 1: Capacità giuridica.
La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita.
I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita”
All’inizio del mio corso di studi, aprendo per la prima volta il Codice civile, ho incontrato una coppia di parantesi quadre: tra loro tre puntini di sospensione. In alto un numeretto, il 2, che rimanda ad una nota. Recita così:
“Comma abrogato ad opera dell’articolo 3, decreto legislativo luogotenenziale quattordici settembre 1944, numero 287. Il comma era così formulato:
“Le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall’appartenenza
a determinate razze sono stabilite da leggi speciali”
Sono sedici parole. Sedici parole che distinguono la civiltà dalla barbarie, la giustizia dalla prevaricazione, il diritto dalla violenza. Sedici parole che, ottant’anni fa, erano scolpite sulle fondamenta del nostro ordinamento giuridico. Sedici parole che si incarnavano nella negazione radicale della soggettività, e dunque della dignità, di una comunità antica, delle sue tradizioni secolari.
Sogni, idee, storie e sentimenti: la vita di migliaia di persone veniva così trasformata in mero dato biologico, costretta in limiti angusti e disumani. Ritornano alla mente, a tal proposito, le parole di Max Horkheimer in “L’Eclissi della Ragione”, che cito testualmente: Si potrebbe dire che la follia collettiva imperversante oggi, dai campi di concentramento alle manifestazioni apparentemente più innocue della cultura di massa, era già presente in germe nell’oggettivazione primitiva, nello sguardo con cui il primo uomo vide il mondo come una preda.
Oggettivare l’uomo, dunque, fare dell’individuo una cosa, della persona una preda. Non riconoscersi nel proprio simile, negargli la possibilità di esistere autonomamente, di esprimersi nella propria libertà. Queste furono le linee programmatiche del Nazionalsocialismo tedesco e del Fascismo italiano. Sostanziate in norme che piegarono la ragione alla follia, sfigurando le leggi in un massacro spirituale e fisico, automatizzato ed industrializzato.
Ed è forse questo il più grande monito che la tragedia della Shoah lascia a chi studia, insegna e fa ricerca. Che la coerenza logica, l’elaborazione geometrica dei sistemi, siano essi normativi, economici o politici, è condizione necessaria, ma non sufficiente, per un autentico progresso scientifico, sociale ed intellettuale.
La forma, per quanto perfetta, non basta.
Essa deve essere orientata, corretta e diretta da un contenuto etico, da una valutazione complessiva degli effetti e delle cause. Non è auspicabile la validità se privata del valore.
Adolf Hitler non prese il potere con la forza, non con la violenza, non con un colpo di stato. Adolf Hitler vinse le elezioni. E questo è quanto di più mostruoso la soluzione finale (Endlösung der Judenfrage) ci abbia mostrato. Che il senso comune di un popolo possa deformarsi a tal punto da scegliere e legittimare un’ideologia manifestamente e dichiaratamente genocida, da inneggiare al massacro sistematico di chiunque non rientri in un determinato canone arbitrariamente stabilito (razziale, etnico, religioso, politico).
È questo il limite del criterio hegeliano dell’eticità, della ricerca di una corrispondenza armonica tra morale e legge: ad un’etica disumana corrispondono norme disumane. Allo stesso modo, dal progresso della tecnica non discende necessariamente lo sviluppo delle coscienze.
Fu così che, con la Shoah, la ragione strumentale arrivò ad elidere il soggetto pensante: la macchina, il logos disincarnato (avrebbe detto Bodei), divenne mezzo impiegato per annientare l’Essere umanamente inteso. Perché i campi di sterminio furono, essenzialmente, macchine di morte: algoritmi complessi che applicavano i principi dell’efficientamento economico al massacro industrializzato.
Per questo Theodor Adorno scrisse che ad Auschwitz l’Uomo veniva spossessato anche della morte: nelle camere a gas non entravano più individui, colti nella loro unicità e sacralità, ma esemplari, omogeneizzati ed omologati, privati di sé stessi.
Solo l’atto di dare valore, l’atto di significare eticamente le forme proprie della ricerca intellettuale, dunque, può porsi come antidoto al nichilismo della ragione strumentale. Eppure, quale valore? La società multiculturale ci ha insegnato che coesistono al mondo innumerevoli sistemi assiologici, tra loro in dialogo e contrasto. Prediligere l’uno rispetto all’altro risulta essere frutto di una scelta, di una manifestazione di volontà intimamente culturale, impossibile da ricondurre interamente all’ambito razionale della dimostrabilità.
Per identificare dei valori che possano essere posti come universali una delle strade percorribili sembra essere quella tracciata da Otto Apel e Jurgen Habermas: la formulazione di un’etica del discorso che soddisfi i requisiti necessari alla corretta comunicazione di posizioni etiche differenti, e dunque al dialogo virtuoso tra civiltà, religioni e culture. Insomma, la costruzione continua di un’agorà democratica.
Sono passati ormai 79 anni dall’ingresso delle truppe sovietiche nel campo di sterminio di Auschwitz, e più passa il tempo, più la memoria collettiva della tragedia della Shoah sembra affievolirsi, sfumarsi in forma cerimoniale, privarsi del suo contenuto vivo, umano. È nostro dovere, come giovani, come studenti, evitare che questo accada.
Perché la Soluzione Finale, e la barbarie che la precedette, furono il tentato suicidio dell’Occidente, il progetto fallito di privarsi delle proprie radici, di quel pilastro giudaico-cristiano che, insieme a quello greco-romano, costituisce il fondamento autentico della nostra civiltà.
Torniamo allora al principio del nostro discorso, a quel comma tre dell’articolo uno del Codice civile. A quella coppia di parentesi quadre, a quei puntini di sospensione.
Che siano per noi monito e ferita mai rimarginata, memoria vivente dell’orrore di cui fu capace l’Uomo, dunque sostanza su cui progettare e costruire un futuro diverso, illuminato, giusto.
di Tancredi Bendicenti