Perché a Sanremo niente è lasciato fuori, tout se tient. I pregi, i difetti, le paure, i sogni: quello che c’è da sapere sull’Italia, e soprattutto sugli italiani, sulla loro storia, sui loro peccati, e sulle loro virtù. Da Pippo Baudo e Gianni Morandi a Mahmood e Blanco Sanremo ha raccontato, anzi, ha incarnato, la storia del nostro paese, i suoi sviluppi, la sua evoluzione (più spesso, ahinoi, involuzione); è stato uno specchio in cui riconoscersi o disprezzarsi, un ritratto attento del senso comune: insomma, il nostro tempo appreso nella televisione.
The Times They Are a-Changin’, e con essi cambia anche Sanremo: alle accuse di leggerezza ingiustificata si è reagito con l’introduzione di intermezzi seri ed impegnati (spesso discutibili); a quest’ultima è seguito il reclamo uguale e contrario di un ritorno allo spazio di divertimento indisturbato, bucolico, puramente apolitico, a cui eravamo stati abituati.
Perché Sanremo, come ogni cosa, divide l’Italia in fazioni e partiti: tradizionalisti e innovatori, rivoluzionari e reazionari. “Quando c’era lui (Claudio Baglioni) era un’altra cosa…” “Vuoi mettere con Fazio?” “Il migliore resta sempre Carlo Conti”. Sanremo sfascia le famiglie e leva il saluto, scava abissi e li riempie di oceani. Ma la frattura più difficile da ricucire è quella che divide i sanremisti dagli obiettori di coscienza, chi organizza i propri programmi di febbraio in funzione della serata cover, da chi non sa nemmeno cosa sia, né vuole saperlo.
E come vi furono Guelfi bianchi e Guelfi neri, così ci sono Sanremisti acritici e Sanremisti polemici: i primi lo guardano tutto, immolandosi in difesa anche delle scelte artistiche più peculiari, i secondi si lamentano senza soluzione di continuità, dei vestiti e delle canzoni, dei presentatori e delle veline, in una cantilena che si risolve nella retorica recalcitrante del come si stava meglio quando si stava peggio: ma lo guardano comunque tutto, minuto per minuto.
E poi ci sono le scommesse, i tweet, il fantasanremo: il paese che si risveglia dal proprio letargo elettorale per il televoto della finale, unica cura comprovata all’astensionismo dilagante. Forse perché ci piace distrarci, pensare ad altro. Forse perché, i problemi, durante la settimana del Festival, sembrano più piccoli e lontani, sfocati come una foto in movimento. Li trascuriamo, dimenticandoci nelle luci e nelle canzoni, nelle ore di diretta interminabili, in un mondo che non esiste ma in cui, amandola o odiandola, riconosciamo i caratteri essenziali della nostra cultura popolare.
Per questo Sanremo è un’opera continua, onnicomprensiva e spontanea di pedagogia nazionale, l’anamnesi annuale ed inconsapevole del paziente Italia. Un appuntamento da attendere con trepidazione o evitare come la peste. Ma sicuramente da non ignorare.
Rino Gaetano una volta disse che “Sanremo non significa niente”. Eppure, come l’esperienza e la storia ci insegnano, la differenza tra il tutto e il nulla è tanto netta quanto incredibilmente fragile, un confine tracciato col gesso, che separa senso e non-senso, il rilevante dall’irrilevante.