La guerra del Vietnam è forse il conflitto più famoso ma allo stesso tempo più sconosciuto dell’intera storia dell’uomo.
Militarmente complessa, politicamente ancor di più, la guerra combattuta in Indocina, data la sua non convenzionale natura, ha suscitato sin dal principio la curiosità dei mass media, facendo sì che un esercito costituito da giornalisti e troupe televisive si recasse (assieme ai soldati statunitensi) nel Sud-Est Asiatico, con lo scopo di indagare il perché di una guerra le cui ragioni, ancora oggi, risultano difficili da capire.
Grandi reporter come Walter Cronkite e Martha Gellorn hanno fornito un resoconto vivido e pungente di quanto accadesse a Saigon e dintorni, narrando delle avversità dei soldati, delle contraddizioni del governo sudvietnamita, della povertà di una Nazione sconvolta nelle sue fondamenta da un devastante conflitto e dell’impatto che l’offensiva del Tet aveva avuto sulla morale americana.
Non si possono nemmeno dimenticare gli scatti del fotografo Larry Burrows, che con i suoi apparecchi ed il suo coraggio pagato con la vita, ha lasciato impressi nell’immaginario collettivo i volti e le scene più strazianti della guerra, per sempre immortalate tra le pagine di Life.
Eppure, proprio perché quello combattuto in Vietnam è stato il primo conflitto a subire una forte mediatizzazione, complice anche il cinema hollywoodiano che con pietre miliari del calibro di Apocalypse Now e Platoon ha impresso nella coscienza collettiva una propria visione dei combattimenti nella giungla, spesso ci si dimentica del medium che ancor più a fondo di cinema, giornali e televisione, ha esplorato cosa significhi veramente combattere una guerra in cui i tuoi peggiori nemici possono essere tanto un viet-cong con il suo AK-47, quanto il fango ed il putridume della giungla: la letteratura.
Andiamo dunque alla scoperta di questo mondo “sommerso”, ai più sconosciuto, che invece risulta essere fonte ricca di informazioni e testimonianze che non potranno non lasciare un segno nell’animo di chi legge, forse ancor più della visione di una qualsiasi potente scena di un lungometraggio.
Iniziamo il nostro viaggio nella giungla profonda con Matterhorn (2009), romanzo scritto dal reduce Karl Marlantes, che attraverso gli occhi del suo protagonista, il giovane tenente Waino Mellas, conduce il lettore lungo uno scenario tutt’altro che bucolico, costituito da fiumi, umidità, alberi e fango in cui il vero avversario non è rappresentato né dal nordvietnamita e nemmeno dal viet-cong, bensì dalla paura dell’ignoto. È cosa risaputa infatti che il conflitto in Vietnam non è mai stato combattuto, se non in alcune specifiche occasioni, in modo convenzionale; sfruttando la conoscenza del territorio, gallerie e una incredibile noncuranza della morte, i vietnamiti hanno tenuto testa alle moderne truppe americane apparendo fugacemente, bombardando, lasciando un’immancabile scia di morti, per poi sparire nel nulla, come se niente fosse. Questo è ciò di cui Marlantes scrive, di un’esperienza vissuta nella costante incertezza di trovarsi faccia a faccia con un nemico invisibile, senza mai sapere se lo si potrà sparare oppure no. Ma a contrastare i turbamenti dell’animo interviene l’amicizia, contraddistinta da un legame puro e sincero, tra giovani che sono poco più che maggiorenni e che nel Vietnam ci sono venuti per dovere, curiosità o semplicemente perché volevano lasciarsi dietro un mondo opprimente e carico di problemi. Tra insetti, piaghe, spaventi ma anche momenti di gioia, divertimento e assoluta spensieratezza, Marlantes ci mostra in uno spaccato più che realistico, cosa significasse davvero vivere il Vietnam, e cosa abbia accompagnato, oltre la morte, dei giovani americani che non facevano altro che portare un pezzo della propria storia e del proprio animo in un luogo che se le cose fossero andate diversamente, sarebbe stato il cinquantunesimo stato della loro patria e dunque, una “nuova” casa.
A bilanciare l’umanità e la monotonia della guerra presente in Matterhorn, si occupa Michael Herr, corrispondente dal fronte dal ’67 al ’69, con il suo Dispacci (1977), definito uno tra i migliori libri mai scritti sulla guerra e sul conflitto in Vietnam, il romanzo autobiografico di Herr propone al lettore una visione nuova e del tutto originale della guerra. Quest’ultima infatti viene presentata e descritta come un fattore umano dai tratti ancestrali, che prima o poi, coinvolge chiunque. Non esistono dei buoni o dei cattivi (soprattuto in Vietnam) ma soltanto degli essere umani che prendono parte a qualcosa di più grande di loro e che li segnerà a vita. Herr narra la sua esperienza costruendo su sé stesso un’aura epica e tragica che trascina il lettore sempre più in dentro nell’inferno dei combattimenti e nell’esperienza devastante tra la fitta vegetazione della giungla, dimostrando inoltre che ogni uomo che si è trovato in mezzo a questa singolare guerra, ha risposto in modo altrettanto non convenzionale ai suoi principi. Ecco che Herr ci porta tra una vegetazione fitta popolata da soldati, o meglio da ragazzi, che usano qualsiasi tipo di droga per “vedere meglio” tra i cespugli e per vivere un’esperienza sensoriale degna di nota, che scelgono di agganciare al proprio elmetto qualsiasi tipo di portafortuna, che si sbizzarriscono con le scritte più divertenti e che adoperano un linguaggio più che colorito per affrontare anche la più semplice situazione. Ironia, tragedia, guerra ed epica si incontrano (e si scontrano) in Dispacci, costruendo, pagina dopo pagina, un lungo viaggio nell’animo di un uomo costantemente attratto, pur controvoglia, dal fascino inesauribile di una guerra che di normale aveva ben poco, e che ha lasciato ai posteri infiniti interrogativi e questioni irrisolte. L’opera di Herr è forse il primo passo verso una comprensione sincera e autentica.
Il libro che idealmente completa (ma non conclude!) il percorso iniziato da Matterhorn e proseguito da Dispacci, è Mettimi in un sacco e spediscimi a casa (1973) di Tim O’Brien (combattente in Vietnam dal ’69 al ’70). L’autore, con quella che è la sua opera prima, trasporta il lettore in quella che è stata la sua esperienza personale, rievocando la quotidianità fatta di noia, paura, volgarità e amicizia. Il Vietnam è stato qualcosa che lo ha segnato certamente, che ha ridimensionato la sua percezione di guerra “vittoriosa”. Più volte, nel corso della lettura, emerge spontanea la volontà di confrontare quanto accaduto in Indocina con la Seconda Guerra Mondiale e la Guerra di Corea, due guerre di cui O’Brien da piccolo ha sempre sentito parlare dai veterani e che è parte integrante della cultura della sua infanzia. Ma mentre dieci-venti anni prima il nemico era ben definito, nella giungla tutto o niente può ucciderti. O’Brien, come i suoi commilitoni, è andato alla ricerca di Charlie, lo ha atteso, è stato attaccato da lui, ma non ha mai avuto la possibilità di combatterlo in modo diretto. E in un clima di terrore come questo, alla mente dello scrittore tornano i ricordi dell’addestramento, della mancanza di umanità e della sadica presenza degli istruttori che hanno cercato di inculcare nelle mente di giovani poco più che adolescenti un solo credo: uccidere (tesi che è stata trattata e rafforzata da un altro veterano del Vietnam, Claud AnShin Thomas, nelle sue memorie pubblicate nel 2004 dal titolo Una volta ero un soldato). In sostanza, Mettimi in un sacco e spediscimi a casa raccoglie in duecento pagine i sentimenti, le sensazioni, le ambiguità e le memorie, di un animo segnato da un conflitto così complicato che soltanto il ricordo ed il tentativo di affrontare i fantasmi del passato possono spiegare.
Una testimonianza tutta italiana, ma di immancabile fascino e respiro internazionale, è la testimonianza offerta da Oriana Fallaci nel suo Niente e così sia (1969), diario di guerra della giornalista scritto tra il ’67 e il ’68, che indagando sulla violenza e sullo scontro di civiltà che sta avvenendo sul territorio vietnamita, cerca di rispondere ad una domanda molto forte, postale dalla sorellina il giorno prima di partire: “La vita, cos’è?”.
È con questo interrogativo che Oriana Fallaci prova a capire e ad analizzare la visione occidentale (o meglio statunitense) della guerra, dimostrando (almeno apparentemente) come in realtà i sudvietnamiti non vogliano il governo imposto dall’alleato e che effettivamente l’intervento americano altri non è che una guerra di aggressione indiscriminata. Eppure, nella raccolta di suoi reportage pubblicata postuma nel 2010, Saigon e così sia, una narrazione dei suoi viaggi in Nord Vietnam, Fallaci esplora l’andamento del conflitto adottando il punto di vista del nemico ed effettua importanti considerazioni sulla situazione cambogiana e la caduta di Saigon, in modo curioso l’autrice torna sui suoi passi, capendo che in realtà sia i Viet-cong che i Nordvietnamiti sono spietati; difenderanno pure la loro terra, ma il male alberga anche in loro, facendo sorgere il dubbio che forse gli americani non sono poi così tanto crudeli come li si dipinge. Ecco che la prospettiva di Niente e così sia e Saigon e così sia, diviene un’altra chiave di lettura del conflitto in Vietnam, che si avvicina tantissimo alla visione che Herr possiede in Dispacci, in cui in una guerra come quella del Vietnam, non ci sono né buoni né cattivi, ma soltanto delle parti in cui schierarsi per poi combattere senza tregua fino alla fine.
Il libro che si trova alla fine di questo piccolo ma sostanzioso viaggio letterario, è un breve ma intenso saggio storico intitolato La guerra del Vietnam (2000) scritto da Mitchell K. Hall, docente di Storia della Central Michigan University, e specializzato negli studi relativi al conflitto in Indocina.
Il saggio in modo efficace e conciso, affronta la nascita del nazionalismo vietnamita, l’ascesa di Ho Chi Minh, il rapporto di amore/odio tra Stati Uniti ed il governo filo-occidentale di Saigon, le presidenze Kennedy, Johnson e Nixon, fino all’inutile tentativo di Gerald Ford di proseguire con gli aiuti destinati ai sudvietnamiti e all’esplosione di sempre più tumulti in patria, che hanno comportato l’uscita della Nazione a Stelle e Strisce da una lunga, logorante e dispendiosa guerra.
Il saggio di Hall risulta essenziale per chi vuole avvicinarsi alla questione vietnamita, presentando inoltre uno stile scorrevole e mai complicato, che facilita senz’altro la possibilità al lettore di ritornare sui passi e sulle questioni che più l’hanno colpito.
Dalla lettura di questi testi, che non sono altro che una piccola costellazione di un intero universo letterario, forse risulterà più agevole al lettore curioso scoprire cosa hanno provato i ragazzi che hanno combattuto nella giungla, perché si trovassero lì e cosa effettivamente il Vietnam abbia significato per loro. Perciò, lasciatevi avvolgere dalle parole degli scrittori che hanno vissuto l’afa, le tempeste, la morte, la distruzione e la paura, senza mai perdere però un briciolo del loro lato più umano, quel lato che li ha accompagnati nella scrittura di memorie difficili ma preziose per i posteri, che chiudendo gli occhi, ci riportano a quegli sfolgoranti giorni degli anni Sessanta, in cui il sole rosso del Sud Est Asiatico incendia col suo bagliore le case di Saigon, riflettendosi sulle onde che increspano il Mekong, e coperto dalle oscure ombre degli elicotteri che trasportano soldati ammantati di verde verso la giungla profonda.
Davide Amenta