Pane o Pizza?

Il corso di autodifesa comincia alle nove. Tarchiata, zigomi diffidenti, me le ha date di brutto. Nelle prese, nelle parate, nei montanti e nei mancini, perfino nei soffocamenti quand’ero io a soffocare, per non parlare dell’inversione di ruoli, le avrei dato il pin della carta senza battere ciglio. Esperienza proficua – se la rivedo, stavolta scappo subito. Ma l’autodifesa è come un’arte del trivio e del quadrivio senza di cui l’uomo non è libero, insegnarla a scuola risparmierebbe decine di colloqui fra insegnanti e genitori, genitori e genitori, poliziotti e genitori. 

Ne avrebbe a iosa la scuola di cose da insegnare invece della composizione del pellet o di come si strimpella una chitarra. Potrebbe insegnare qualcosa su internet, su come ottenere mezza opportunità per l’estero, a non farsi turlupinare dagli infiniti barabba che sempre ci provano, a capire che si può essere felici in molti modi. Le nozioni, tanto, si trovano altrove. Se non raggiunge gli studenti con uno stimolo alla vita migliore, può essere abolita. Nessuno sente la mancanza di quello che gli è indifferente.

Nella scelte di materie e nel metodo, la rilevanza è l’unica cosa che possa far sostenere lo sforzo fisico e la noia dell’immobilizzazione al banco per sei ore colle stesse persone anni ed anni. Non trovo niente di più importante della vita di tutti giorni vissuta nella libertà della scelta, che è l’unica cosa che le nostre scuole si impegnano a non sfiorare neanche. Non è che siano inutili la storia e la matematica, ma per come sono insegnate ci restano estranee. Insegnateci a cercare l’autenticità, a volerci trovare un sistema di vita che non ci abbandoni alla scontentezza di chi vive a caso.

Ma la rilevanza è anche spicciola. Diritto e medicina, per esempio, non ci farebbero male.

La scuola ignora il fatto elementare che tutti ci ammaliamo. Una solidarietà di bilancio fra ospedali e presidi suggerirebbe che conoscere la differenza tra antistaminico e cortisone è più conveniente che imparare a memoria l’articolo trentadue e assillare il medico di base nel mistico orrore di un eritema. E’ vero, ai quesiti medici pensa internet, più o meno: e fra le tre diagnosi due sono cancri e l’altra è una rara forma di sifilide corinzia dal 30 a.C. Ma uno si ammala a giorni alterni e tu vagli a raccontare della guerra del Peloponneso – sì, due volte.

Il diritto servirà a ciascuno di noi perché regola le interazioni fra sconosciuti. Per quanto ci si impegni fra strette di mano e avances digitali, è improbabile conoscere tutti. Di quelli che conosco posso fidarmi anche senza codice penale; ma per quanto mi riguarda tutti gli altri sono assassini e maniaci. Anche la signora che ogni martedì salutandomi con un cenno portava a spasso il gatto, la cui improvvisa ed immotivata sparizione ci mette il carico da trenta. Fidarmi, ma perché dovrei? Noi, noi non ci fidiamo, e la proliferazione fungheggiante degli avvocati non è che una traduzione sub specie societatis della gran voglia di litigare che abbiamo tutti. 

Ma il diritto, come la medicina, è di quelle discipline che se fossero più diffuse anche soltanto in minima dose non avrebbero quasi bisogno di professionisti e cultori. In un mondo ideale, dove ognuno sa un po’ di tutto quel che gli serve – per il cid con quel cretino che taglia la strada o per la reazione al sushi troppo colorito – avvocati e medici cederebbero il passo a giudici di pace e farmacisti.

E poi, la maggior parte delle sagome di inchiostro sui libri non assumerà mai un significato per la maggior parte della gente. Per certe materie è la morte: lo studio della filosofia nelle scuole, pretenzioso inchiostro per vocazione, incontra la resistenza del senso comune e lascia dopo di sé il vuoto. Negli studenti ormai cresciuti, le poche nozioni sopravvissute al tempo invecchiano nell’indifferenza intangibile di una palla di vetro sulla libreria in polvere, ogni tanto la si scuote e lo spettacolo è sempre eguale, un nevischio scende e risale noiosamente, e noi osserviamo, stanchi. 

Così anni fa aiutavo un amico con Kant o qualche filosofo strambo. Strafatto di insonnia alle due del mattino, boccheggio qualcosa su pane e pizza; pane, e pizza: pane; e pizza. Gli dissi, credo, che la rilevanza della filosofia si riduceva alla scelta tra pane e pizza, che la tragedia della libertà e degli inconciliabili sistemi di pensiero si manifestava anche in fila al panettiere. Le idee più intelligenti mi capitano sempre quando dormo, ma non perché come Fellini abbia una visionaria genialità sopita nel retro del cervello, è solo probabilmente che non sono un granché quelle che ho da sveglio. 

Il punto era che la filosofia sta nelle cose comuni e non nell’iperuranio, e che la scelta di una visione del mondo condiziona la qualità e il modo di vita per giungere fino alla decisione tra pane e pizza. Qualunque il criterio adottato, l’imposizione stessa di un criterio si qualifica a pieno titolo come filosofia. All’idealismo e al motore immobile si giunse per gradi, dai carboidrati salendo col pensiero al corpo che li digeriva e all’anima che li selezionava: il dilemma dal panettiere differisce per quantità non per qualità dalla Critica della ragion pura. 

Sotto questa lievitazione spropositata del concetto, ormai comprensivo di ogni banale decisione ragionata, è l’idea che la filosofia è semplice autocoscienza, e l’autocoscienza è nel più elementare degli atti, perché è un continuo guardarsi allo specchio della vita. Se la scuola ha un dovere, è svegliarci di fronte a noi stessi, perché anche nelle torpide ore della vita, quando tutto congiurerà ad addormentarci di scelta in scelta, di barcollamento in barcollamento, indirizziamo ogni passo alla nostra felicità. 

Dunque, pane o pizza? La fila scorre, non la si può bloccare. Prega che il pos funzioni.