21.09.2023
Non ho idea di come si vive al di fuori del mio recinto. Mi sentivo intrappolata in una minuscola gabbia a guardare la vita passarmi davanti, con il cancello aperto, ed una fila di persone che mi chiamavano da fuori: ‘Esci, esci che si sta bene’. Sono uscita. Non so se si stia bene.
Certe volte mi manca la gabbia. Certe volte mi mancano le quattro pareti della mia stanza, il mio letto, il mio cuscino bagnato di lacrime che non riuscivo a spiegare, certe volte mi manca dormire sul pavimento perché sono troppo stanca per arrampicarmi sul materasso. Però una volta che esci le quattro pareti iniziano a starti strette. Cresci, e dentro la gabbia non entri più. Ci ho provato con ogni forza, con ogni forza ho provato a infilarmici di nuovo dentro, a cercare una gabbia abbastanza grande, a trovare un compromesso per uscire e al tempo stesso tornarci a dormire la notte. Non si può. O uno o l’altro, o uno o l’altro, o uno o l’altro e ho finito per fare la fine dell’asino di Buridano.
Tra quasi un mese festeggio un anno senza dissociazione. Un anno in cui ho vissuto ogni momento. Ad agosto era diventato insopportabile. Pregavo arrivasse il momento in cui mi si sarebbe spento il cervello, in cui mi sarei svegliata ed era tutto finito, mi sarei ritrovata in un’altra stanza, in un altro momento, fuori da ogni pericolo. Ma non è mai arrivato. E ho attraversato la tempesta da sola. È stato faticoso. Ogni passo è stato faticoso, ogni mattina è stato faticoso, ogni sera è stato faticoso, ogni pomeriggio è stato faticoso, ogni attimo in cui venivo lasciata da sola è stato faticoso, ogni momento in cui non riuscivo a stare in compagnia è stato faticoso, quando avevo bisogno di chiamare qualcuno per chiedere aiuto ho fatto fatica. Ero una pentola a pressione che stava per scoppiare, e non l’ha mai fatto. Non mi sono permessa di scoppiare. Mi sono permessa di buttarmi a terra, tra la sabbia, ad urlare e ad implorare alla tempesta di fermarsi, ma mi sono rialzata e ho ricominciato a camminare. Ho camminato finché ho potuto. E ho chiesto una mano quando è stato necessario.
Pensavo spesso a quella frase sulla tempesta di Murakami, pensavo a quanto odio lui e tutti i suoi libri ed il suo modo di scrivere, ma quella maledetta frase non mi usciva dalla testa. Dalla tempesta sarei uscita, e non sarei stata la stessa. Certe volte mi sono guardata alle spalle con la tentazione di fare tutta la passeggiata a ritroso e ritornare dove stavo prima. Ma le orme sono cancellate, la strada è sbiadita e l’unica cosa che mi resta da fare è andare avanti: continuare ad andare avanti.
Ora sono qui: fuori dal mio recinto. Non so che vita si faccia qui, non so come affrontare certe cose senza il pilota automatico. Mi sembra di guidare senza cintura di sicurezza, di precipitare senza paracadute. Nella vita vera se cadi ti fai male, e senti tutto il dolore. Come si fa a sentire tutto il dolore? Non sono più abituata. È un anno che faccio questa vita, e ancora non mi sono abituata. Senti tutto il dolore e piangi? Senti tutto il dolore e fai finta di niente? Non esiste un’altra me che possa prendere il mio posto. Questo è il posto che mi spetta, questa è la mia vita. Sto guidando senza cintura ma sono al volante. Scelgo io dove portare la macchina. Scelgo io la destinazione. Scelgo io chi far salire.
A quella Flavia, grazie per avermi provato ad aiutare. Ma è ora che mi faccia strada da sola. So che sei dentro di me, so tutto quello che hai fatto per me. Ma per la prima volta mi sento di dirti che forse non servi più. Forse se sono stata capace di camminare fino a qui, posso continuare a camminare ancora per molto da sola. Ho solo bisogno della compagnia giusta. Ho solo bisogno di trovare il coraggio.
Ti ringrazio di cuore, per avermi portata sana e salva fino a dove sei riuscita.