I cassonetti bruciano per le strade di Bruxelles. Parrebbe una scena da Les Miserables
“Do you hear the people sing, singing the song of angry men…”
se non fosse che a vegliare sulle proteste non è Javert-Russell Crowe ma un quartiere europeo ormai paralizzato. La scena è ben rappresentativa di un problema ormai diffuso. C’è un malcontento non indifferente, da parte di alcune fette della popolazione europea, nei confronti delle istituzioni europee, viste come fredde burocrazie di tecnocrati lontane dalle preferenze del popolo. Nel frattempo, crescono le adesioni per partiti poco istituzionali, per dire con un eufemismo quello che è uno stile di politica, quello populista, che desta non poche preoccupazioni in vista delle numerose elezioni di quest’anno. Un dubbio sorge dunque spontaneo. L’Europa ha colpe nell’aver contribuito al fenomeno populista? Ma soprattutto, la prossima legislatura e commissione europea ha margini di azione per far fronte a questo fenomeno?
Negli scorsi decenni abbiamo assistito ad un progresso tecnologico ed economico poderoso. A questo però non è stato affiancato un progresso istituzionale adeguato. Al contrario, la qualità delle istituzioni democratiche è andata spesso deteriorandosi. Il sistema tradizionale dei partiti politici è entrato in crisi, con le iscrizioni ai minimi storici e una distorsione sempre maggiore delle scelte di politica economica. I costi sempre più alti delle campagne elettorali e l’influenza progressivamente più determinante del denaro per poter arrivare nei luoghi decisionali ha fatto sì che individui provenienti da background socioeconomici più bassi abbiano avuto rappresentanze sempre minori. Da questa distorsione non è esente l’apparato burocratico europeo, spesso popolato da figli di famiglie di classi già medio-alte. Ma le ragioni per cui le istituzioni europee sono state accusate di eburnea rappresentanza di interessi economici sono ben altre.
Gli Stati nazionali hanno visto i loro poteri progressivamente ridotti. L’adesione all’unione comporta una serie di standard in merito di sistema giudiziario e diritti democratici, che nell’Est Europa implica una forte riduzione delle alternative di politiche implementabili. La politica monetaria è stata delegata alla Banca Centrale Europea, senza che i cittadini ne percepiscano un controllo democratico. La politica fiscale è stata soggetta a vincoli sempre più stringenti di bilancio e di spesa. Non hanno aiutato le politiche restrittive in seguito alla Crisi finanziaria del 2008, in un contesto dove molti lavoratori hanno visto le loro opportunità lavorative ridotte dalla concorrenza globale e dalla sostituzione tecnologica. Se il dibattito sull’efficacia delle misure di austerity non è ancora esaurito, è già più acclarato che la percezione negativa sui programmi di tagli alla spesa pubblica possa aver comportato un aumento della propensione al voto per un partito populista. Questo è stato verosimilmente accentuato dal clima di incertezza dopo la Crisi Finanziaria del 2008 e dai notevoli balzi in alto del tasso di disoccupazione.
Eppure, alcuni studi sono riusciti a identificare ed isolare una contribuzione esclusivamente imputabile al rigetto delle misure della cosiddetta Troika, la triade di Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale.
L’idea che spesso si sente nelle proteste è quella di un’Europa fredda e distaccata, chiusa nella sua tecnocratica difesa di interessi di banche e multinazionali. Ignorando degenerazioni complottistiche, c’è il fatto che le decisioni di vita pubblica stanno prendendo connotazioni sempre più tecniche, ponendo seri interrogativi al modo con cui siamo abituati a concepire le democrazie. Se la tendenza al tecnicismo non è in sé e per sé negativa ed è la necessaria conseguenza di un mondo sempre più complicato, crea un problema di rendicontazione democratica non da poco. Se il cittadino non capisce quello su cui si decide o non ha il tempo per capirlo, il gioco democratico di controllo dei propri governanti smette di funzionare. Da lì a vedere la classe dirigente come corrotta e subdola il passo è breve, soprattutto nelle fasce di popolazioni meno educate. Se poi le decisioni più importanti non vengono più prese dai propri politici eletti ma dai tecnocrati di Bruxelles, o se questi ultimi possono addirittura mettere a tacere programmi di politica democratici, il calderone è potenzialmente esplosivo. La coesistenza di stati nazionali e una cabina di regia dall’alto che li influenza è stata identificata da
diversi studiosi come una delle cause dei malumori populisti.
La questione è che così concepito il progetto europeo rimane zoppo. O si procede verso un’Unione più perfetta, ricalcando l’espressione della costituzione statunitense, o nella percezione popolare le finestre del palazzo Berlaymont continueranno a non differire troppo da quelle di una grossa banca d’investimento nelle affollate vie di New York o Londinesi. Credo che la causa profonda del fenomeno sia un senso di sfiducia generale nel metodo democratico e nell’idea che quello europeo possa costituirsi come un gioco democratico plausibile. Sarà anche la prossima classe dirigente europea a dover rispondere a questa sfida, per decidere se le singole nazioni europee possano, unite, contare ancora qualcosa nello scenario internazionale o se, al contrario, condurre il progetto europeo verso tempi ancora più duri.
L’Europa non è una necessità storica. Non è una legge naturale né una verità rivelata. Credo però sia la scelta plausibile di individui razionali, consapevoli che esso sia l’unico mezzo sufficientemente forte per poter affermare i valori di libertà e uguaglianza, di dignità della persona che ci contraddistinguono come Occidentali. Difendere agiograficamente ciò che non funziona non fa altro che contribuire alla sua crisi e al suo fallimento. Sta a noi aggiustare il tiro prima che sia troppo tardi.