Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente. Lo scrisse Pavese. Poi si ammazzò. Tutto sommato, sembrerebbe non essere un buon esempio, e nemmeno un buon punto di partenza.
Invertiamo, riproviamo: soffrire serve a qualcosa. Deve servire a qualcosa. Ma a cosa? La risposta non è ovvia. Forse perché non c’è?
Facciamo un passo indietro:
perché stare male, quando si può stare bene?
Banale,
riformulo:
perché guardare indietro quando la strada è avanti, dritta, illuminata, senza curve, nè tornanti, con l’asfalto liscio, i lampioni nuovi e la segnaletica aggiornata?
Evita metafore, soprattutto automobilistiche,
riformulo:
perchè torturarsi ancora ed ancora, per ogni errore, ed omissione, per le parole dette e non dette, pensate o sussurrate?
Non hai evitato metafore, ma la sostanza c’è. Pazienza.
E quindi: perché quando una persona, una persona a cui vogliamo bene, a cui teniamo, muore, non abbiamo il coraggio di lasciarla andare? Tanto se ne è già andata per conto suo. Non dipende da noi. Non dipende da te. E, nella maggior parte dei casi, non dipende nemmeno da lei.
Mi sono posto la domanda tante volte, negli ultimi mesi. E la risposta che ho tentato è che, il dolore, per quanto strano possa sembrare, ci tiene compagnia. Sostituisce chi abbiamo perso: per un giorno, un mese, un anno o tutta la vita. E può diventare un buon amico, se lo si riesce a conoscere, a gestire, a limitare, a controllare. Perché ci ricorda che quella persona c’è stata. Forse per troppo poco, forse troppo a lungo. Ma c’è stata. E soprattutto continua ad esserci. Perché il nulla non può far male a nessuno. Solo ciò che è, ciò che rimane, può farci soffrire. E la morte, e non la morte in astratto, come idea, ma questa o quella morte, è. E continua ad essere nel tempo. Diventa un pezzo della persona che abbiamo perso. Quindi un pezzo di noi. È l’atto conclusivo, l’ultima riga, l’epilogo certo di ogni vita. È vero: tanti romanzi sarebbero migliori se non avessero mai fine, o se avessero una fine diversa. Ma volti pagina, non ce n’è un’altra. E non è un male. Perché la fine è l’unica garanzia di immutabilità di cui disponiamo. Ciò che è morto non può cambiare. La fonte, la matrice delle informazioni, l’oggetto, anzi il soggetto, che esiste fuori di noi, autonomamente rispetto a noi, che pensa per sé, si è estinto, ha cessato di esistere, nihil, kaput. Non ci può più sorprendere, nè deludere: sta tutto lì.
Perciò, il dolore, non si supera e non si toglie, non veramente. Si cicatrizza, si coagula, diventa un rumore di sottofondo a cui si è tanto abituati da non riuscire più a sentirlo. Ma resta. E neanche questo è un male. Perché la grande, la tremenda verità è questa: soffrire serve a qualcosa. A ricordarci la nostra fragilità innata, che è la concretazione della possibilità della fine, di ogni fine. A sopravvivere, a vivere, ed in qualche modo, ad essere felici, non nonostante ma anche grazie a. Perché la grande, la tremenda verità è questa: soffrire serve a qualcosa. Almeno credo. Almeno spero.