La politica americana è strana. Lo è molto di più di quanto, comunemente, si pensi. Almeno per un osservatore europeo. Non si esaurisce nel canone novecentesco del conflitto ideologico, né in quello contemporaneo del contest tra leader. C’è un quid in più, una distinzione. Una differenza radicale, e quasi misteriosa, evidente anzitutto durante le lunghe campagne che preparano le elezioni presidenziali.
Perché negli Stati Uniti, prima che alle proposte di policy, prima che alle posizioni etiche, si guarda alla “fitness” del candidato. Un termine, questo, che in italiano non ha traduzione. È una forma di “idoneità”: fisica, intellettuale, psicoattitudinale, valoriale prima che professionale. Una combinazione di salute, di equilibrio emotivo e mentale, di rispettabilità e di rettitudine nella gestione della propria vita privata e famigliare. Il Presidente deve essere, ma anche apparire, l’immagine dell’intransigenza morale, della prontezza nell’agire, della correttezza nei rapporti: un simbolo di forza, di vigore caratteriale, e persino, in qualche misura, fisico. Ma anche: spiritoso, naturalmente “likeable”, disponibile ed empatico, bravo con i bambini, ossequioso nei confronti dei veterani, rispettoso degli anziani. E sebbene molte di queste tendenze siano state progressivamente importate nei paradigmi comunicativi e politici europei, è indubbio che resista, almeno in questo campo, uno spiccato eccezionalismo americano. Perché una cultura emersa dal puritanesimo, da una fede cristiana costruita sull’inflessibilità, sulla purezza e sulla pulizia dell’anima, non può che tendere alla perfezione. O almeno sull’approssimazione di essa.
Il Presidente degli Stati Uniti d’America non è né un primo ministro, né un premier, né un cancelliere. E non è nemmeno un semplice capo di stato. Tra le proprie origini concettuali e storiche da un ordinamento che nasce in opposizione, e non in implicita continuità, all’autorità regia, all’idea stessa di potere pubblico. Per comprendere le caratteristiche strutturali e pratiche che ne distinguono la funzione dagli omologhi (anzi, disomologhi) europei, è necessario rivolgere la propria attenzione ai due elementi fondamentali che costituiscono, generalmente, ogni problema politico: quello giuridico e quello extragiuridico, ossia quello formale e quello sostanziale.
Guardiamo dal primo. E dato che il diritto costituzionale è una disciplina che vive anzitutto di parole, incominciamo da esse:
“Article II, Section 1, Clause 1:
The executive Power shall be vested in a President of the United States of America”
Da notare il legame reciproco e biunivoco, che approssima l’identità de facto, posto tra organo monocratico e potere esecutivo. Una dicitura tendenzialmente inedita, sia per chiarezza che per forza, negli ordinamenti democratici dell’Europa occidentale. Vested in: si traduce con “conferito a” ma, come spesso accade per i linguaggi tecnici, è necessario approfondirne le implicazioni e le sfumature nella lingua d’origine, per giungere a comprenderne effettivamente il significato.
“The term vested describes a right, interest, or title that is absolute, fixed, and not subject to being taken away or “divested.” When a right is vested, the person with the right has a guaranteed legal claim or entitlement that can be enforced now, in the future, or both”.
Dalla definizione emergono tre caratteristiche principali e costitutive: la assolutezza, la stabilità (fixedness) e la immutabilità (intesa come inincidibilità da parte dei terzi, efficace erga omnes). Non a caso, d’altronde, il “vesting”, come concetto ed istituto giuridico, promana – a livello tanto logico quanto genealogico – dalla disciplina dei diritti proprietà sviluppatasi tralatiziamente negli ordinamenti di common law (per approfondire la complessità storico-filologica della questione: https://www.stanfordlawreview.org/print/article/vesting/).
Si stabilisce dunque un legame ontologico, una forma di appartenenza strutturale ed indissolubile, tra l’ufficio del Presidente ed il potere esecutivo, sostenuto e rafforzato dalla rigida separazione di matrice montesquieuiana, caratterizzante la Costituzione Americana, incarnazione pratica del pensiero liberale del diciottesimo secolo. Il paradosso è questo: una nazione nata da una rivoluzione, e fondata su un sistema assiologico repubblicano, ha mantenuto nel proprio ordinamento un organo costituzionale monocratico cui è conferito il potere esecutivo more excludendi omnes alios (almeno secondo gli interpreti più radicali). Una figura giuridica e politica non del tutto dissimile, per poteri ed autonomia, da quella del monarca (salvo, chiaramente, le differenze fondamentali inerenti al termine di mandato, alle modalità di elezione, e ai poteri di controllo esercitati da Congresso e Senato).
Non a caso, i giuristi della scuola originalista – in primis Scalia, con la teoria dello “Unitary Executive” – nel tentativo di tracciare i confini dell’”investitura” prevista dall’Article II, hanno impiegato come fonte ermeneutica interposta l’istituto della “royal prerogative” britannica. È comunque da sottolinearsi che l’interpretazione della vesting clause resta, per le sue profonde implicazioni politiche, uno dei temi più dibattuti dalla scienza giuspubblicistica americana.
Ma torniamo all’elemento sostanziale, che è il principio del nostro discorso, arricchendolo della forma giuridica che abbiamo brevemente tratteggiato. In poche parole: lo scrutinio attento ed onnicomprensivo che l’elettorato opera sui candidati presidenziali è giustificato dalla vastità delle prerogative costituzionali attribuite al vincitore. Perché non si sta scegliendo solo un leader politico, nè un capo di governo, ma l’immagine viva della nazione, delle sue virtù, della sua forza, della sua prontezza. Un re che dura quattro anni e che dispone, anche se certo non da solo, del presente e del futuro.
Ed anche per questo il rapporto che si instaura tipicamente tra POTUS e cittadini è essenzialmente fiduciario: in qualche modo, personale. Un rapporto che passa prima di tutto dall’assicurazione, fornita agli elettori, dell’intangibilità di un insieme di diritti acquisiti e costituzionalmente tutelati che corrispondono all’essenza delle promesse di libertà su cui si fondano gli Stati Uniti. Per cui non c’è da stupirsi del fatto che l’attuale candidata democratica abbia più volte ripetuto, nei propri interventi pubblici e nel dibattito con il suo avversario, di essere un’orgogliosa “gun owner”, e di “non avere alcuna intenzione di levare agli americani i loro fucili” (esattamente in questi termini, tanto infantili quanto chiari). Se avesse affermato il contrario, avrebbe rischiato di essere considerata “unfit” da un’ampia componente dell’elettorato.
Specularmente, l’eccezionale potenza comunicativa della foto scattata a Trump dopo l’attentato, con il viso grondante di sangue ed il pugno stretto verso il cielo, è funzione anche, se non soprattutto, della sua età. È l’immagine di un uomo di settantotto anni, ben oltre il suo prime (apice) psicofisico, che ha la forza di sfidare la morte con il vigore di un trentenne, con il testardo e ribelle convincimento proprio solo della gioventù.
Infine, le ragioni che hanno portato Biden a ritirare la proprio candidatura sono radicate nella questione della fitness: nella sua idoneità, o meglio inidoneità, mentale e cognitiva ad esercitare le proprie prerogative costituzionali. La donna che lo ha sostituito, Kamala Harris, ha quasi vent’anni meno del suo avversario. Vent’anni che si vedono e si sentono, e che si sono visti e sentiti durante il dibattito del dieci settembre.
Nikki Haley, ex candidata dell’ala moderata alle primarie repubblicane, ha affermato qualche tempo fa “vincerà il partito che per primo si libererà del suo ottantenne”. La domanda è: aveva ragione?