Una verità

Diventerò giornalista, porterò a conoscenza di tutti la verità. Sarò vera, oggettiva. Mi atterrò ai fatti e nient’altro che ai fatti. E se i fatti saranno sconosciuti, mi impegnerò a trovarli, a scovarli, a portarli alla luce del sole. Così, tutti sapranno la verità.

Un’estate, quando ero piccola, avevo finito l’ultimo libro che i miei genitori mi avevano comprato. Disperata, alla ricerca di qualcosa da leggere, decisi di scrivere la mia prima storia: una piccola bambina, i due ciucciotti biondi che mi cadevano dolcemente sulle spalle, un pennarello verde nella mano. Non mi ricordo di preciso cosa scrissi, ma ricordo le parentesi tonde al posto delle virgolette, perché non mi ricordavo come iniziare una linea di dialogo. E così, i piedi a penzoloni dalla sedia troppo alta per me, rilessi quello che avevo scritto. Presi un altro foglio, scrissi un’altra storia. Quattro paginette che avevo strappato dal centro di un piccolo quaderno, a caratteri cubitali. E continuai. Imperterrita. Ne scrissi tre o quattro prima di fermarmi e portarli correndo dai miei genitori.

In famiglia davano per scontato che avrei fatto la scrittrice, da grande. Mio nonno lo aveva anche sognato. Diceva: ‘Una nipote farà la scrittrice, l’altra la scienziata’. Insistette che io facessi lo scientifico e mia sorella il classico. Con mia sorella non l’ebbe vinta, e oggi lavora come data scientist  a Roma. Forse ci aveva visto lungo, come un miope senza occhiali.

Crescendo, il sogno di fare la scrittrice, per un breve periodo, si spense. Scrivevo sempre meno, e quando lo facevo scrivevo senza passione. Asettica. Non un filo di emozione. Ero così determinata a cercare la verità, la giustizia. Ogni mia parola doveva essere un’accetta, bam! questi sono i fatti, bam! questo è quello che è successo. Mi accorsi quasi immediatamente che avevo perso ogni tipo di fantasia, che non c’era più gioia nella scrittura. E lasciai che quella fiamma morisse.

Mi iscrissi a giurisprudenza per una sete di giustizia. Volevo sapere cosa fosse giusto. Tutto mi sembrava logico, lineare: la violazione di una norma porta ad una sanzione. Mi chiedevo come fosse possibile che il mondo fosse nel caos: su carta era tutto così semplice, alla portata di chiunque. Voglio giustizia: se A colpisce B, A deve essere punito. B ha vinto, ha ottenuto giustizia. Ignoravo completamente che dietro B esisteva una storia, che dietro A se ne nascondeva un’altra.

Non me ne resi conto presto, ahimè. Mi piombò addosso come un fulmine, la consapevolezza che la verità è solo un concetto con cui si sciacquano la bocca i presuntuosi. Le persone sono complicate. Le loro storie sono complicate. Non tutto può essere riassunto con uno schema a freccette, in un titolo di giornale in cui la sentenza è già stata scritta. E questa mia voglia di scoprire la verità, di portare a galla e a conoscenza di tutti la realtà dei fatti pian piano si spense. Venni a scoprire che esistono giustizie anche dietro alle ingiustizie, che la cattiveria è soggettiva, così come la verità.

Mi chiedo come sia possibile parlare di un fatto con assoluta certezza anche quando non si è stati presenti. Come si possa decidere per gli altri qual è la storia, centellinando le informazioni, decidendo quali divulgare, cosa rendere noto, cosa tenere celato, cosa venire a sapere e cosa lasciare nell’oscurità. Che si parli tenendo in considerazione solo la versione di B, mai quella di A. Che A sia messo alla gogna pubblica per aver colpito B, questo chiediamo. Chiediamo giustizia. Ma la giustizia certe volte viene fatta a parole, a voce o su carta stampa, la sentenza viene data prima del processo e quando la storia di A è finalmente pubblica, tutti si dimenticano della sua esistenza. Tutti si dimenticano anche di B. Scegliamo sempre i martiri per un giorno, poi ci dimentichiamo di levarli dalla croce.

E allora se nessuno guarda anche all’altra faccia della medaglia, come si fa a scoprire la verità? Come si porta a conoscenza del pubblico? Se esistono due versioni diverse? Due alterazioni completamente distinte della realtà? In medio stat virtus. E allora cosa fare? Chiedere a tutti, singolarmente: “cosa stavi facendo alle 9.03 l’11 Settembre del 2001?” e allora in quel momento potrai ponderare ciò che hai scoperto, mettere tutto in diversi piatti della bilancia finché non saranno perfettamente allineati, asciugarti la fronte dal sudore, sputare un grumo di sangue per terra e rimanere a guardare il tuo capolavoro: un pugno di vuoto. Et voilà!

Ragionai, ragiono tutt’ora: e allora cosa vuol dire essere oggettivi? Dire che il cielo è blu, che il mare è salato. Ma il mio blu potrebbe essere il tuo verde e per me il sale potrebbe avere lo stesso sapore che per te ha lo zucchero. E siamo da punto accapo.

E allora preferisco raccontarti che sapore ha per me il mare. Ti descrivo che sapore ha sulla mia lingua, come mi pizzica le ferite che ho sulle labbra troppo morse dal nervosismo, come lo sento quando evapora l’acqua e rimane solo quel sottile strato di sale, a grattarmi la pelle sotto i vestiti. Ti racconto di come mi schiarisce i capelli, di come è accogliente d’estate e furioso d’inverno. Di come ci vedo mille sfumature diverse, che certe volte riesco a vedere il fondale e i pesciolini che nuotano. A me sembrano contenti, ignari. Forse non lo sono: cercano di scappare verso terra come fecero i nostri antenati, nella speranza che gli spuntino le gambe.

Non racconterò più del cielo azzurro. Ti descriverò le nuvole.

E non cercherò più la verità. Cercherò una storia. La voce di qualcuno che vuole parlare ma mai è stato ascoltato, di chi è stato condannato ancora prima di essere sentito, di chi non ha una voce e ha solo le mani per esprimersi, di chi non vorrà parlarmi e con gli occhi mi dirà tutto ciò che io riuscirò a capire.

Voglio ricominciare a scrivere, questa volta per raccontare una verità.