Il fine giustifica i mezzi: se il fine è la pace, va bene anche la guerra. Se il fine va bene, va bene tutto il resto. Cannonate e peccati? Va benissimo.
La massima è cattolica. Tommaso scrive che Agostino scrive che se si combatte una guerra giusta, non importano i mezzi. Citano la bibbia: Dio disse a Giosuè: “Va bene tutto.”
Nell’ottocento dicevano infatti tutti che la frase era dei gesuiti. Però oggi tutti sanno che Machiavelli scrive che il fine giustifica i mezzi. Nessuno capisce che nessuno dovrebbe scrivere che Machiavelli abbia scritto mai niente di tutto ciò.
Nel Principe, Machiavelli scrive solo: “Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e’ mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati.” Sviluppando un’osservazione di Cicerone nella Pro Rabirio secondo cui le decisioni vengono giudicate in base agli esiti, Machiavelli dice soltanto che al vincitore ogni mezzo è perdonato: la vittoria è in sé stessa una sanatoria retroattiva e totale. Il parallelismo più congruo è con l’atto di Brenno che getta la spada sulla bilancia col dire: vae victis. Tutto è lecito a chi vince, perché nessuno gli dà contro. Chi vince ha il potere e col potere si può spadroneggiare. Vincendo ci si assicura l’impunità.
Per Machiavelli la spudoratezza dei mezzi non si giustifica per la nobiltà del fine, ma perché ottiene un risultato. La giustizia del fine non entra né dalla porta né dalla finestra nel Principe. Il fine è quello che è. Va bene, va male, va benissimo; non c’è problema. La condotta da volpe o leone, l’astuzia e la violenza, non si valuta che per la capacità di raggiungere lo scopo. La loro giustificazione è quanto all’effetto, non quanto al motivo. È come la ricetta per un rustico. Se poi il rustico strabordi di burro ed alzi il colesterolo non è cosa che interessa.
Nella cultura europea il fraintendimento è nato per trentasette motivi sconnessi. Ma la sua propagazione nella cultura italiana moderna è colpa di un singolo libro: la Storia della letteratura italiana del De Sanctis. Lì sta scritto che alcuni riassunsero a torto il Principe con quella frase insopportabile. Il De Sanctis non pensa che Machiavelli abbia detto una frase simile. Ma quando ancora si leggeva, tutti leggevano il De Sanctis. Tutti hanno letto quindi che il fine giustifica i mezzi. La frase si è sedimentata perché suona bene ed è facile; sta nel capitolo su Machiavelli: quindi l’ha detta Machiavelli. Così una frase superflua, scritta con buone intenzioni, rovina la vita eterna di un morto.
Non è veramente colpa del De Sanctis; la spartisce con infiniti altri prima e dopo. Ma se il De Sanctis e tutti gli altri avessero scritto solo quello che pensavano loro sul Principe, forse quest’ideona del fine e dei mezzi sarebbe dimenticata da un pezzo. Sarebbe stata assenza di verità? Sarebbe stato disonesto e contrario alla scienza? Dire di sì: facile, come sempre. Per dire di no, riflettere che se si è davvero convinti che la propria è la verità, e le si vuole giovare a tutti i costi, le si giova forse di più col non citarne antitesi e storpiature. Parlare di qualcosa è darle vita, anche solo per dire che non esiste. Sapendosi poi che la calunnia è un venticello, trarne le conseguenze.
L’universo funziona in un certo modo tra conservazione e dimenticanza. C’è una profonda verità nello strumento romano della damnatio memoriae: l’oblio è la chiave. Se qualcosa è dimenticato, cessa di esistere.
Spesso la migliore risposta a un’accusa è ignorarla. Se ci calunniano, noi parliamo d’altro. Nella selezione dei dati che la storia compie un po’ a caso un po’ per esservi indirizzata, può benissimo darsi che delle parole degli avversari, semplicemente, si perdano le tracce. Se si continua a ripetere la propria versione dei fatti senza citare le altre, può ben darsi che un giorno passi per verità, anche quando verità non fosse.
Per cui quando si parla di Machiavelli, non bisogna mai citare alcune cose, non bisogna mai dire che – cos’era che non andava detto?