Nella vita pubblica italiana si assiste periodicamente al ritorno del passato: vecchi partiti risorgono, antiche idee risbocciano, fosse anche solo per due settimane. Mentre sfilano i revival e si riaprono i vecchi armadi, sarà d’uopo chiedersi: all’apparenza della rievocazione corrisponde poi la sostanza?
Nel trattare dello stato di cose al tempo di Augusto, Tacito afferma che le magistrature conservavano i loro nomi nonostante il potere risiedesse ormai altrove, in un dissidio di forma e sostanza. Aggiunge allora che i più giovani erano nati dopo la battaglia di Azio, e anche la maggior parte dei vecchi era nata durante le guerre civili. Per cui quotus quisque reliquus qui rem publicam vidisset? Chi sopravviveva che avesse visto la repubblica? Questa è la questione generazionale.
Il fulcro è che la repubblica era morta per sempre perché morto era chi l’avesse vissuta. Il sottinteso è che non si può desiderare o rimpiangere quel che non si è mai conosciuto, essendo l’uomo troppo legato ai propri tempi di formazione per aprirsi al nuovo che gli anni successivi fanno inevitabilmente emergere. La riduzione di un contrasto ideale al problema cronologico delle generazioni è un meccanismo che funziona senza eccezione. In molti casi è la migliore spiegazione, in ogni caso è possibile.
Quando si discute dei matrimoni di coppie omosessuali, e si tira in ballo dagli oppositori la particolare valenza del matrimonio religioso e il plus dei figli, negato, dicono, a due uomini o due donne, e la pletora di altre argomentazioni, aleggia intorno alle parole lo spettro di un sospetto: che scavando a fondo nelle intenzioni dell’interlocutore si possa scovare, anche solo sbiadito ed antico, un alone di omofobia. Se chi parla ha una certa età, il dubbio si converte in ragionevole certezza. Nessuna delle nuove generazioni, nate dalla soglia del 2000 in poi, può essere omofoba. Chi lo fa va controtendenza. Siamo dunque all’estremità opposta delle generazioni in cui qualche decennio fa l’omofobia era la norma. Scandalizzarsi ed inveire ha un’utilità limitata; è più utile comprendere che si tratta di un fatto. E’ infinitamente più semplice, inimmaginabilmente più semplice per un italiano nato settant’anni fa essere omofobo e non nutrire alcun interesse per tutto ciò che importa a un diciottenne. Ad una certa età le idee si sedimentano; più si procede nel tempo minore si fa la disponibilità a cambiare il proprio modo di vedere le cose. Possiamo appellarci ad ogni tipo di principio e statistica per persuadere un sessantenne, e persuaderne forse molti, moltissimi, ma se non si ha chiaro in mente che ad ogni passo si può incappare nella scorza dura di un passato vivente, ci si accanirà senza frutto. In Italia, paese demograficamente vecchio e culturalmente arretrato, molti non sono disposti a cambiare idea. Possiamo edulcorare la verità, e la lotta per il progresso deve in ogni caso continuare, ma il fatto è chiarissimo. Questa è la realtà della questione generazionale.
I giovani usano i social molto più degli altri. Ma le leggi sono scritte da tutti fuorché da loro. Se si insulta qualcuno su instagram, la condotta è scortese; se proprio serve una pena, basta un ban. Per la legge e la giurisprudenza è reato: diffamazione aggravata, con accesso al risarcimento in sede civile. Su internet stride più che altrove il contrasto tra vecchio e nuovo: leggi vecchie, come ogni legge diventa, sul mondo nuovo, che lo è diventato ben più velocemente di quanto usasse. Un tempo c’era l’onore – in molti angoli del mondo fisico resiste ancora. Ma su internet nessuno si formalizza. Nessuno se ne infischia. Chi usa internet dal 2012 sa che non gli si può applicare un codice del 1933: sa che è come trapiantare il codice napoleonico nella società azteca. Per un nativo digitale fama e diffamazione sono morte e sepolte; per noi, ma non per loro: i datati, gli analogici. Poiché la legge è per la maggior parte in mano ad ultracinquantenni, per un po’ di tempo nessuno insulterà nessuno. Vivremo così sotto leggi non nostre. Questo è il dramma della questione generazionale.
Periodicamente si parla di fascismo ed antifascismo. Quando un tredicenne inneggia al fascismo per ribellione ormonale o sindrome del pappagallo, arriva di solito qualcuno a dire che questo tredicenne il fascismo non sa neppure cosa sia. L’obiezione è corretta. Nessuno sa più cosa sia il fascismo; nessuno è abbastanza patriota da combattere sull’Isonzo o donare l’oro alla patria o sacrificare i propri sabati alle manifestazioni collettive di una dittatura. Nessuno accetterebbe le corporazioni, nessuno comprenderebbe il colonialismo, nessuno si sentirebbe sulla Terra piuttosto che su Marte se venisse piombato nel mezzo del 1934. Non fu sempre così. La legge Scelba sul reato di ricostituzione del partito fascista non stonava nel contesto del 1952. In un film Alberto Sordi, mi pare, derideva gli Italiani, un popolo che da un giorno all’altro da fascistissimo era divenuto tutto partigiano: inverosimile: eccettuate le banderuole, tanti erano ancora se non mussoliniani almeno fascisti. Chi ha studiato diritto pubblico sa che tante sentenze della Cassazione negli anni cinquanta cozzano con ogni principio costituzionale, e che la Corte Costituzionale le demolì una dopo l’altra. Chi ha studiato la storia sa che l’uso delle forze di polizia negli anni cinquanta era piuttosto disinvolto, e che nel sessanta si tentò un governo Tambroni col Movimento sociale. Quando nel settanta dei neofascisti provarono un colpo di stato, a organizzarli fu Junio Valerio Borghese, militare della repubblica sociale negli anni quaranta. Almirante partecipò alla repubblica sociale. C’è una questione cronologica di fondo che nella prima repubblica motivava i continui allarmi contro il fascismo: i fascisti esistevano come generazione.
A quasi trent’anni dalla svolta di Fiuggi, attuata da un uomo nato quasi dieci anni dopo la caduta del fascismo, non sarebbe strano pesare con giusto metro i reali pericoli di un ritorno del regime. Autoritarismi e dittature possono risorgere, e da questi bisogna guardarsi con ogni acume. Ma il fascismo in quanto tale non tornerà perché non ci sono più i fascisti. Questa è la semplicità della questione generazionale.
Il presupposto di una spiegazione generazionale dei fenomeni è la passività dell’uomo rispetto alle idee che le circostanze cronologiche, geografiche e sociali gli hanno presentato. Specularmente opposta è la fiducia illuministica che la ragione umana possa persuadersi in qualunque età e condizione. Nessuna delle due teorie sfiora minimamente il problema, perché entrambe si muovono sul piano delle massime astratte, buoni ideali regolativi e pessime per qualunque altra cosa. Si tratta di questioni di fatto: del chiedersi se in un eventuale referendum del 10 giugno 2025 un sessantenne italiano approverebbe il matrimonio di coppie omosessuali; se una reintroduzione della leva non verrebbe accolta da diserzioni, occultamenti ed espatrî. La questione generazionale incombe ogni trent’anni: è il motivo per cui fra genitori e figli non corre buon sangue. Il tempo la risolve, sempre. Se è vero che le idee non muoiono con gli uomini, è pur vero che esse non camminano con le proprie gambe, e col naturale processo di morte per senescenza si estinguono via via i loro sostenitori attuali e potenziali, perché la vita nuova soppianta la vecchia e il terreno su cui dovrebbero attecchire muta fino all’irriconoscibilità. Nel 2124, si può indovinare che l’omosessualità sarà molto più accettata di oggi; che non si ricorderà neanche che fosse la marcia su Roma; che i social saranno regolati da leggi proprie, come è l’ordinamento sportivo. I problemi attuali, semplicemente, non avranno più senso. Così procede il primigenio, invitto marchingegno del tempo. Questa è la soluzione della questione generazionale.