“Chi entra in una società pensando di poter fare a meno del prossimo, o è bestia o è Dio.” Questo diceva Umberto Galimberti, o meglio Aristotele, in un’intervista che un po’ di tempo fa ascoltavo e riascoltavo di continuo. Tanto da non riuscire nemmeno a ricordare il contesto in cui quella piccola grande pillola di grecità mi veniva inoculata, disattenzione, forsel prova del mio analfabetismo funzionale – tanto in voga ultimamente. Ma sono abbastanza sicuro che in quel momento si stesse parlando della prodigiosa gen Z, la mia e forse anche la tua. Una generazione di tanti piccoli Maradona, tanto nel talento, quanto nei demoni. Un nome, una condanna.
I vecchi ci considerano imprevedibili, quelli ancora più vecchi senza futuro, i quasi coetanei oscillano tra il disprezzo sincero e l’adulazione stupida. Quanto all’opinione che abbiamo di noi stessi, rimando alla più recente letteratura psicanalitica o ai meme che girano su Reddit e Twitter.
Siamo ossessionati dal conoscere il nostro Nemico, per citare Tolkien, tanto da avere le idee troppo confuse per capire chi dovrebbe portare avanti le nostre battaglie, chi dovrà impugnare una spada che non ha scelto di brandire e che in condizioni normali preferirebbe seppellire. Abbiamo forse chiesto noi di essere la generazione determinante per il futuro del pianeta? Di essere stati la cavia dell’esperimento delle nuove tecnologie e della pubblicità? Sono nostri i miliardi che l’industria del petrolio mette nelle proprie tasche rubando anni all’ecosistema? Domande non banali per un pubblico che aspetta per rispondere: conseguenza del boom economico. Stateci. Mai puntare il dito fu più semplice e liberatorio.
Chi entra in una società pensando di poter fare a meno del prossimo, o è bestia o è Dio. Le nostre madri cibernetiche e i nostri padri algoritmici ci hanno affidato con fin troppa spensieratezza a maestri che elevano la legge del più forte a diktat pedagogico, incarnata nella spregiudicata scalata delle classifiche (perché ogni cosa è classificata), soft and hard skills e diffidenza come unici picchetti. Risultato? Un esercito di terminator collezionisti di premi aziendali e ferie arretrate da una parte, un’orgia Woodstockiana di Yuppies e perdenti dall’altra. Se non sei competitivo non meriti di essere aiutato, se non sei competitivo muori. Per certi aspetti non abbiamo così discostati dalla tradizione umana come ci piace credere: un passo avanti, cento indietro. “Anche ai nostri tempi era così” direbbe qualcuno, ed è qui che sta la tragedia: a quei tempi c’era un qualche miliardo di anime in meno su questa terra, la metà della metà delle cose da scoprire e, soprattutto, il triplo delle risorse. Come si può rispettare uno standard così alto con così poco materiale? Ed è allora che l’unica soluzione appare incitare alla lotta, a sbranare il prossimo per strappargli l’indeterminato dalle mani e scriverlo su Linkedin col suo sangue, perché a tutti piace fare ‘Networking’ e darsi le pacche sulle spalle felici di pensarla tutti allo stesso identico modo, ma sarà pur sempre uno solo a doverla spuntare, perché questo è l’ordine artificiale delle cose. Sarebbe interessante se durante i corsi di formazione facessero questa ultima precisazione, perché cos’è un inganno senza una punta di amara consapevolezza?
E allora cosa rimane? Quello che resta è un giardino incantato dove si può entrare, ma non in coppia, dove si può fare squadra ma solo a tempo determinato, dove si vive a piramide e ci si riproduce in cerchio. Chissà cosa direbbe Aristotele davanti allo spettacolo di questo mondo popolato da bestie e da dei, ma non da uomini. Forse riderebbe della loro estinzione o ne loderebbe l’evoluzione, ma la reazione che più mi incuriosisce e quella che avrebbe vedendo quanta gente sta abbandonando il proprio posto in fila per recarsi chissà dove.