Un mese dal report Draghi: un commento a freddo

È passato ormai un mese dalla pubblicazione dell’attesissimo report sulla competitività dell’Unione Europea di Mario Draghi. Il dibattito si è concentrato ora sui pregi delle proposte, ora sui loro limiti. Pochi hanno però discusso della modalità con cui tale report sia stato commissionato, sulla logica della scelta sottostante. In altre parole, sul perché le scelte di politiche industriali, di difesa ed estere debbano essere cristallizzate in un documento unico, redatto da una figura non del tutto dissimile da un consulente esterno. A prima vista potrebbe parere più logico che sia l’amministrazione stessa, la burocrazia, a dover concepire e pianificare le politiche pubbliche ritenute ottimali. Questo non sempre è possibile. E il fatto che non lo sia lascia aperti alcuni interrogativi importanti per il sistema democratico e per il suo futuro.

I limiti della pubblica amministrazione

Nel sentire comune pare ci siano due visioni estreme sullo Stato. Visto talvolta come insieme di burocrati inetti, o ancora come ente onnisciente capace di rispondere alla perfezione ad ogni sorta di necessità sociale, la realtà è che la macchina statale è un’organizzazione di persone. Come esseri umani sono dotati di tempo, capacità e conoscenze limitate. L’ideazione e l’implementazione delle policy e dei loro obiettivi sottostà pertanto a questi limiti. Non tutti i dirigenti e funzionari hanno una formazione tecnica in ogni ambito. Le competenze, spesso eterogenee, dei vari enti pubblici richiedono dover prioritizzare l’una o l’altra esigenza a seconda dei periodi. Aggiungiamoci che il pubblico fa difficoltà ad avere un incentivo chiaro di azione come può essere il profitto del privato, perché, almeno in ogni Stato a reddito medio-alto, persegue una serie di altri obiettivi che sono spesso difficili da conciliare. Sarebbe insomma assurdo supporre che l’amministrazione pubblica possa pretendere di sapere tutto, saper fare tutto, saper pianificare tutto. Non meraviglia dunque che esistano realtà multilaterali per affrontare il problema, come OCSE, Banca Mondiale o Fondo Monetario Internazionale, specializzate nel fornire soluzioni di policy basate sull’evidenza.

Perché i report

I report che tali organizzazioni producono sono una possibile soluzione al “costo” che hanno i burocrati di acquisire nuove informazioni e di implementare politiche le cui conseguenze sono spesso ignote anche ai loro promotori. Il report di Draghi non si allontana da questa logica, seppur con importanti differenze.

Non è raro che le amministrazioni abbiano timore di intraprendere politiche ritenute rischiose o che si allontanino troppo dai tracciati predefiniti. Il supporto mediatico e strategico di un documento esterno, condiviso politicamente dalla presidente della Commissione Von Der Leyen, rende possibile avere una fonte di legittimazione per poter conseguire scelte di politiche altrimenti ritenute troppo fuori dai ranghi. La scelta di una figura come quella di Draghi in tal senso è evidente. Sebbene generalmente tali report siano scritti assommando contributi diversi da fonti altrettanto variegate, tale figura istituzionale fa da “garante” sulla qualità delle proposte e sulla sua compatibilità strategica e valoriale rispetto al progetto europeo. Anche per questo l’altro recente report della Commissione sul futuro del mercato unico è stato firmato da Letta, altra figura “centrista insider” che cerchi di fare da collante tra le varie posizioni all’interno dell’Europa. La posizione quasi “messianica” di chi assume tale ruolo è giustificabile solo da una convergenza al centro dello spazio politico. Non a caso nel report sulla competitività si evidenzia continuamente la complementarità di politiche della concorrenza con quelle più strettamente sociali. Questo è anche volto a evitare le possibili accuse di elitismo (che sono già arrivate) nel proporre soluzioni dall’alto verso il basso. In poche parole, non si può pretendere di compattare intorno al sentimento di urgenza visioni troppo diverse se non con un approccio di compromesso e con l’autorevolezza dello “statista”.

Altro vantaggio è che la forte legittimazione politica costringe le amministrazioni ad avere un vincolo esterno che, nella complessità di obiettivi della pubblica amministrazione, fornisce un utilissimo incentivo nel vincolare la stessa a perseguire un determinato tipo di azioni. Come lo studente universitario procrastina sullo studio finché non arriva l’esame, così anche le pubbliche amministrazioni sono tentate dal rinviare alcune azioni finché un vincolo esterno non le forzi ad agire. Nei privati questo è spesso il mercato, il cliente o la concorrenza. Tali vincoli sono più laschi per il decisore pubblico. La vera forza di questi report, perciò, non è tanto nelle proposte in sé, spesso già note, quanto nel fornire un incentivo, un senso di urgenza intorno a tali proposte. I report delle organizzazioni internazionali possono essere ignorati, letti e dimenticati senza conseguenze significative. Un report scritto da Draghi e supportato da Von Der Leyen no, o almeno più difficilmente.

Questioni aperte

Il problema a monte però rimane. Se “appaltare” ad esterni metodi e strategie può essere più efficiente nel breve periodo, non sempre conviene avere una pubblica amministrazione incapace di esprimersi autonomamente sulle sfide poste dall’accelerazione del presente. Una pubblica amministrazione che non capisce le politiche economiche o non ha le energie intellettuali o motivazionali per proporne, una pubblica amministrazione che non ha le competenze specifiche per capire l’evoluzione della tecnologia o della società non può che essere un applicatore passivo di consigli esogeni che non sa rielaborare. E per quanto una decisione possa essere tecnica sarebbe auspicabile che essa sia mediata consciamente nei canoni dei valori costituzionali a cui quella amministrazione fa capo, semplicemente perché scelte a-valoriali non esistono. Il problema è che un attore che agisce in un contesto che non capisce, in genere, fa danni. Diminuire l’autoreferenzialità di una certa parte dell’amministrazione passa anche dalla consapevolezza delle conseguenze delle proprie decisioni.

Nella politica dei report rimane poi il problema di agency, cioè di un possibile doppio conflitto di interessi, dal lato del mandante e del mandatario. Il mandante, colui che commissiona il report, ha tutto l’interesse di conferire l’incarco a qualcuno che dia risultati conformi alle aspettative o ai propri programmi. Su questo, non sono mancate le accuse di voler fornire al secondo mandato della Von Der Leyen una fonte esterna di legittimazione. Dall’altro il mandatario non risponde direttamente delle conseguenze delle sue proposte. È per questo che vengono scelte figure come Draghi o Letta la cui integrità istituzionale è generalmente poco discussa. In che modo un tecnico esterno sceglie di ascoltare alcuni stakeholder piuttosto che altri? Selezionare è necessario, ma chi deve decidere il metodo con cui farlo? Sarebbe necessario inserire qualche forma di valutazione del mandatario?

La società è tremendamente complicata. Governarla figuriamoci. Ridurre questa intrinseca complessità del decidere e implementare politiche pubbliche è una scelta comprensibile di qualunque amministratore. Delegare strategie o scelte all’esterno è fisiologico e spesso anche intelligente, ove non si dispongano delle risorse per farlo internamente. Tuttavia, gli interrogativi che discendono da tale prassi, non necessariamente negativa, sono molti, ancora aperti ed essenziali.