Possedere un’auto elettrica, risparmiare energia in casa, evitare viaggi in aereo: sono questi i gesti, indubbiamente virtuosi, che di pari passo con l’incentivo di megaprogetti di energia rinnovabile additiamo spesso come l’unica strada per salvare il pianeta.
Qui non si intende discutere che il surriscaldamento globale rappresenti una minaccia esiziale; semplicemente, è d’obbligo fare i conti con la natura del fenomeno stesso: il clima, infatti, non è un sistema le cui variazioni risultano proporzionali alle forzanti che le hanno provocate; si tratta, piuttosto, di un sistema assai complesso che prevede circoli viziosi e punti di non ritorno.
Per provare a comprenderlo, mettiamo a confronto due modelli dal funzionamento simile, ma dall’effetto opposto: il “feedback negativo”, stabilizzatore, e quello “positivo”, foriero di circoli viziosi.
L’omeostasi, meccanismo antico come la vita in quanto ad essa indispensabile, si fonda sulla retroazione negativa, in forza della quale basta che un solo elemento del circuito eserciti sul successivo un’azione inversamente proporzionale a quella che riceve dall’elemento precedente. Un esempio tratto dalla fisiologia è la regolazione della glicemia, il cui livello evoca da parte del pancreas una risposta uguale e contraria mediata principalmente da insulina o glucagone.
L’affascinante “ipotesi Gaia” di James Lovelock estendeva un principio simile all’intera biosfera, intendendo che la totalità dei viventi fosse in grado di mantenere stabili i parametri fisico-chimici negli intervalli propizi alla loro esistenza. Si tratterebbe di una proprietà emergente a prima vista nient’affatto scontata e perciò così degna di nota: obbedirebbero a questa regolazione la concentrazione di ossigeno nell’atmosfera, la salinità degli oceani, la temperatura, finanche le precipitazioni, visto che il batterio più diffuso sul pianeta, Pelagibacter ubique, produce una molecola, chiamata dimetilsolfuro, capace di addensare il vapore acqueo nella formazione di nuvole. La chiave interpretativa di questo intreccio tra mondo organico e inorganico è probabilmente la coevoluzione della biosfera con la componente abiotica: a una perturbazione dell’ambiente da parte dei viventi, seguirebbe l’evoluzione di altre forme di vita adatte alle condizioni mutate e da esse dipendenti. Ad ogni modo, per quel che interessa ai fini della discussione sul clima presente e futuro, questo modello suggerisce che entro certi range alcune variazioni (ad esempio la CO2) possono essere ammortizzate.
Ma a destare allarme sono proprio i cosiddetti “tipping points”, cioè i punti di non ritorno: è precisamente in questo caso che i cicli a feedback positivo che caratterizzano il clima diventano trainanti; la brutta notizia è che indugiano sulla soglia che ci apprestiamo a varcare, teoricamente capaci di prendere le redini per guidare il sistema verso un nuovo punto di equilibrio.
Vediamo però di offrire qualche esempio di tali proprietà “autorinforzanti”.
L’albedo, ovvero la frazione di luce riflessa, delle banchise polari intorno alla calotta antartica e soprattutto nel Mar Glaciale Artico, dove sono poche le terre emerse, garantisce che la radiazione sfugga ai gas serra che invece intrappolano onde nella frequenza dell’infrarosso; tuttavia, se il ghiaccio marino fonde per l’innalzamento della temperatura, il mare, più scuro, assorbirà altro calore, che esacerberà la fusione della banchisa.
Un’altra spada di Damocle che pende su di noi dal Nord del mondo è il permafrost: enormi distese di terreno che per metri e metri di profondità conservano da tempi remoti un’immensa quantità di materia organica non decomposta: il disgelo sta già provocando il rilascio di metano, gas con un potere climalterante decine di volte superiore all’anidride carbonica. Il discorso, tra l’altro, è simile per le aree umide, che pur non essendo congelate sono “serbatoi” di carbonio ben più consistenti delle foreste e sono comunque suscettibili all’innalzamento delle temperature.
Non si possono poi non citare gli incendi, già grandi padroni del nostro presente: sebbene molti siano dolosi e legati spesso alle tristi motivazioni discusse in seguito, è facile accorgersi che siamo di fronte a un altro circolo vizioso in cui il caldo li alimenta ed essi oltre alla devastazione lasciano di volta in volta un mondo con meno alberi e più gas serra.
Si potrebbe continuare e l’elenco comprenderebbe il collasso di ecosistemi con conseguenze di vasta portata (savanizzazione dell’Amazzonia, riduzione delle diatomee ai poli con crollo del sequestro di carbonio…) ma il messaggio che qui preme di far passare è che oltre una certa soglia (1,5°C/2°C) si pone il clima nella condizione di evolvere da sé, anche in uno scenario a emissioni zero.
Sfortunatamente per noi, stando a un articolo pubblicato su Nature, le infrastrutture ad oggi presenti in tutto il mondo, senza neanche contare le migliaia di progetti già approvati o in corso di esecuzione, se impiegate per l’arco di tempo previsto, eccederanno le gigatonnellate di anidride carbonica che ci separano dalla soglia di cui si è detto. Senza dimenticare – è opportuno aggiungere – che il settore energetico non rappresenta affatto l’unico ingente apporto alla crisi climatica.
Al che, sarebbe anche sano prorompere in rabbia, frustrazione o paura. Eppure, c’è ancora uno spiraglio di speranza. Ad aprirlo, una recente ricerca pubblicata anch’essa su Nature, che mostra come il superamento temporaneo di una soglia possa essere reversibile, a patto che il circolo vizioso necessiti di un lungo tempo per prendere il sopravvento.
Una sottigliezza determinante, se mai fossimo sinceramente interessati a un salvataggio in extremis, ma cosa rimarrà sotto i nostri piedi nel frattempo che volgiamo lo sguardo all’insù senza riuscire minimamente a mitigare la minaccia del clima che cambia? Il rischio è di appiattire il dibattito a proposito della sfaccettata crisi ambientale a uno solo dei suoi molteplici aspetti. Uno dei più importanti, ma forse non il primo in assoluto – come asserisce George Monbiot assegnandogli uno screditante terzo posto. Soprattutto, il più difficile su cui avere la meglio.
Esiste, quindi, uno strumento scientifico che offra una panoramica sul mosaico delle diverse crisi e minacce, tenga traccia del loro stato di avanzamento e consenta anche al profano di soppesare le più importanti? Credo che la risposta sia affermativa e risieda nell’elaborazione da parte di Johan Rockstrom dei limiti planetari, risalente al 2009 e da allora in continuo aggiornamento. La logica di questa ricerca è quella di circoscrivere i sistemi naturali la cui compromissione a lungo andare minerebbe la stabilità della convivenza umana sulla Terra e in secondo luogo quantificare la loro alterazione sulla base di una scala di rischio crescente.
Delle nove voci individuate, ben 7 destano grande preoccupazione: l’introduzione di nuove sostanze chimiche potenzialmente dannose, l’arcinoto cambiamento climatico con la sua “gemella cattiva” ovvero l’acidificazione degli oceani… e poi balza agli occhi che tutti e 4 gli indicatori di equilibrio degli ecosistemi -in questo caso soprattutto terrestri, ma in mare, per così dire, non si naviga in migliori acque- sono ben fuori dai parametri: acqua dolce, ciclo dei nutrienti, biodiversità e uso della terra.
Non c’è bisogno di aggiungere che fra tali fenomeni c’è una forte interconnessione, ma ce n’è uno le cui ricadute sono talmente pervasive da non risparmiare nessuno dei restanti problemi. Mi riferisco all’uso del suolo, al cui proposito George Monbiot afferma quanto segue: “Ormai sono convinto che l’uso della terra sia la questione ambientale più importante di tutte. Eppure è anche tra le meno considerate.”
Temo però che questa “lacuna fatale nella coscienza pubblica” affondi le radici in un terreno insidioso, che per ironia della sorte è lo stesso su cui avremmo il più ampio spazio di manovra. Finalmente una grande opportunità dunque; ma non dimentichiamoci: dove esiste alternativa praticabile, c’è in ballo una grande responsabilità.
Qual è, per venire al sodo, l’invenzione di cui si serve l’uomo per abbattere foreste, inquinare suolo e falde, prosciugare fiumi e laghi, non lasciare che deserti di biodiversità, contribuire in maniera sostanziale al surriscaldamento climatico, e in definitiva fare tutto questo in scala molto maggiore di quanto al limite potrebbe servire per sfamare dignitosamente tutto il mondo? Ebbene, quest’invenzione si chiama allevamento. Non che sia criticabile come invenzione in sé, ma nella forma che ha assunto oggi è quanto di più deleterio ed esecrabile il rapporto uomo-natura abbia partorito nella storia di sempre.
Adottare su larga scala una dieta vegetale imprimerebbe una svolta positiva che sarebbe impensabile finanche per tutti i megaprogetti di energia rinnovabile messi insieme; eppure sembra più facile investire migliaia di miliardi di euro in questi ultimi piuttosto che vincere la gola o l’abitudine, contestualmente a una migliore educazione in merito e alla regolamentazione dello strapotere delle lobby. Sarebbe invece il caso di stanziare anche solo una frazione dei lauti sussidi destinati all’allevamento – che sono il motivo per cui gli alimenti animali costano così poco – per un’equa riconversione del settore.
Il dato incontrovertibile a cui finora ci si è richiamati è semplicemente il fatto che un animale è una “fabbrica di proteine alla rovescia”: per mettere su un chilo di carne, avrà bisogno di ingerire una quantità in media 10 volte maggiore di mangime (coltivato oltretutto con ampio uso di acqua); naturalmente però la ragione etica sarebbe da sola più che sufficiente per adottare una dieta vegetale, come pure si potrebbe operare questa scelta a tutela della propria salute, pensando tra l’altro all’antibioticoresistenza dilagante. Non bisogna poi dimenticare che enormi appezzamenti di terreno nutrono animali quando centinaia di milioni di persone soffrono la fame: l’ammontare di cereali e soia dati in pasto al bestiame solo negli Stati Uniti garantirebbe una ciotola di cibo al giorno a tutti gli abitanti del pianeta.
A tal proposito, in un contesto in cui la globalizzazione ha reso la rete alimentare sempre meno modulare ed esposta all’effetto domino, la FAO ha stimato che agli attuali tassi di consumo abbiamo solo 60 anni di approvvigionamento rimasto. Sconfortante, no? Faremmo bene a pensarci, per una volta che abbiamo un’unica soluzione a così tanti problemi. Se, per esempio, seguissimo i suggerimenti di Carla Benedetti e vestissimo i panni di “acrobati del tempo”, scommetto che vista dal futuro una semplice bistecca sarebbe un tabù. Un piccolo espediente, questo, per scardinare quelle abitudini dal cui potere Charles Duhigg ci aveva messo in guardia.
In conclusione, a fronte di minacce per arginare le quali è richiesto il massimo sforzo e non è garantito se non l’esito più incerto, è essenziale che l’attenzione e la volontà del cittadino siano richiamate sulle sfide, peraltro epocali, che oggi si possono e si devono veramente combattere. Sulla scorta delle parole di Jonathan Franzen, per prepararsi alle ormai inevitabili calamità future “ogni sistema, naturale o umano, dovrà essere il più forte e sano possibile”, e a maggior ragione dovremo lottare per democrazie, sistemi giuridici e comunità funzionanti. A suggello di queste righe, non si potrebbero trovare parole migliori di quelle espresse nel primo articolo della costituzione del popolo Haida, nel sincero augurio che la nostra società impari da loro: “Come le foreste, le nostre radici sono così profondamente intrecciate che gli eventi più gravi non potranno sopraffarci”.
Bibliografia e sitografia
- Franzen J., E se smettessimo di fingere? Einaudi, 2020
- Lorenz K., Gli otto peccati capitali della nostra civiltà. Adelphi, 1974
- Lovelock J., Nuove idee sull’ecologia. Bollati Boringhieri, 2021 (ediz. originale 1979)
- I batteri oceanici che governano il clima globale, it
- Provenzale A., Coccodrilli al Polo Nord e ghiacci all’Equatore. Storia del clima della Terra dalle origini ai giorni nostri. Rizzoli, 2021
- I circoli viziosi del clima: come accelerano il riscaldamento globale. duegradi.eu
- L’effetto serra e le diatomee, it
- Ritchie et al., Overshooting tipping point thresholds in a changing climate. Nature, 2021
- Rockstrom J., Gaffney O., Breaking Boundaries. DK, 2021 (da cui è tratto l’omonimo documentario su Netflix presentato da David Attenborough)
- Tong D. et al. Committed emissions from existing energy infrastructuture jeopardize 1.5°C climate target. Nature, 2019
- Monbiot G. Insectageddon: farming is more catastrophic than climate breakdown. The Guardian, 20.10.2017
- Monbiot G., Il futuro è sottoterra. Mondadori, 2022
- Dalla fabbrica alla forchetta: saicosamangi.info
- Kemmerer L., Mangiare la Terra. Safarà Editore, 2016
- Per scoprire i vantaggi della dieta vegetale: accademianutrizione.it
- Lymbery P., Restano solo sessanta raccolti. Nutrimenti, 2023
- Benedetti C., La letteratura ci salverà dall’estinzione. Einaudi, 2021
- Vacchiano G.: La lezione del popolo Haida Gwaii. #OnePeopleOnePlanet.