Avrei voluto fare una battuta, e nessuno l’avrebbe capita. C’è un aneddoto su un vaso e una persona che lo guarda senza capire; ma per raccontarlo bisognava spiegare chi fosse il filosofo Enzo Paci, chi il suo maestro Antonio Banfi, chi Husserl, che fosse quindi la fenomenologia, filosofia di inizio novecento; che era un forma, più o meno, di idealismo; cosa sia dunque l’idealismo lato sensu nel secondo ottocento; a quel punto un po’ di circostanze storiche, che sono come il prezzemolo, non perché siano verdi. Ma poi, dopo un buon quarto d’ora di circostanziamenti, sarebbe stato inevitabile tornare ad aggiungere qualche nozione di base sulla fenomenologia, senza di cui si fa poco del vaso: l’idea che quando pensiamo pensiamo sempre a qualcosa, camuffata col nome di intenzionalità, e il suggerimento che vale la pena stare zitti non avendo qualcosa di buono da dire, poiché di buono in effetti si ha poco – dandogli, come fecero, una parrucca greca e chiamandolo epochè, o sospensione del giudizio.
L’episodio era così semplice. Paci va da Banfi a chiedergli spiegazioni sulla fenomenologia; Banfi gli indica un vaso nel suo ufficio e gli dice: “Descrivi il vaso.” Paci non vede che un vaso. Ma Banfi gli chiede ancora: “Dimmi cosa vedi.”
Il contesto è un lungo assillo. Per episodi simili il contesto conta, quello che sta attorno al fatto in sé banale conta, perché altrimenti è pure incomprensibile. Se le etimologie non fossero un esercizio per platonici di seconda mano ed europei che se la tirano – ma lo sono. Non potremmo quindi con onestà dire che contesto viene dall’atto di tessere: arroccare filo dopo filo, inconocchiare antecedenti e presupposti, sperando che l’aneddoto non resti appeso come un pezzo di stoffa tagliato a vuoto. E poiché non possiamo cedere all’attualizzazione semipoetica, interamente pretenziosa della mitologia greca, non si può esclamare alla sorte di penelope, che ricamava in attesa, come qui tocca attendere ore di spiegazioni per comprendere una battuta. Non possiamo assolutamente, e non lo faremo.
In ogni caso la fatica è più della soddisfazione. Per questo, in un momento di silenzio, ho deciso di continuare a tacere. Niente simpaticherie sul vaso. Parlare sarebbe equivalso a non dire niente, per chi fosse estraneo al contesto. Se penso a chi conosco e chi non conosco, difficilmente trovo chi possa sapere del vaso di Paci. E mi convinco che è bene che sia così, perché l’aneddoto è perfettamente superfluo, e la sua completa inutilità è un fatto che riconosco con piacere. Specifico, circostanziato, vago, irrisolutivo; tanto che è strano saperlo più che non saperlo. Ma se qualcuno al bancone per caso, ordinando un orzo macchiato, lo cita al barista o lo spiffera al telefono tra subaugusta e giulia agricola, non sento alcuna profanazione della vita privata, come accadrebbe se sorprendessi un uomo qualunque a raccontare senza peso l’aneddoto del film sugli alieni girato da mio nonno o qualche episodio dei miei quattordici anni. Questo è perché, nonostante siamo in pochi a saperlo, non ce ne frega nulla.
Potrebbe essere lo spunto per lamentare la generalizzata assenza di cultura, lo scadimento dell’istruzione media, l’inerzia mentale di starsene appollaiati sul proprio nido di povere piccole nozioni, nonostante un cielo immenso di cose ci spazi davanti, su internet e fuori. Ci si potrebbe far venire l’amaro in bocca, credersi vittime di incomprensione. E poi? Poi resteremmo senza nulla in mano, come al solito.
La condivisione del contesto è un miraggio dal passato. Quando tutti leggevano la bibbia c’erano miracoli e resurrezioni. Quando tutti leggevano il libretto rosso, a colazione era Mao e cereali, e al televisore era tutto bianco e rosso. Chi avesse urlato Carlo nel ‘73 avrebbe ricevuto come in eco i cori di risposta: Marx. Chi viveva nel settecento aveva stampato nelle sinapsi il significato del lancio di un guanto; e avrebbe sfoderato sciabole e pistole. Se cade un guanto noi lo calpestiamo senza farci caso; i gentili di cuore si chinano a raccoglierlo: il proprietario ringrazia – non c’è di che, andandosene in pace. Ma le schizofrenie comportamentali ad ogni piè sospinto, gli imbarazzi e le imprevedibilità di condotta dell’individuo della nostra epoca sono risultati in proporzionalità diretta del laceramento di un contesto comune. Oggi che le esperienze si immillanno, le concezioni di vita decuplicano, le informazioni si scavalcano, si salutano per correre su linee parallele ed opposte, oggi che basta uno stimolo da un commento sotto un post qualunque di x o una lettera sbagliata su un link per finire chissà dove, leggere qualcosa, poi molto, forse riflettere e diventare persone completamente diverse, oggi si condivide pochissimo col prossimo, che ci scorre accanto come plancton nell’oceano. Chi ci cresce vicino ha la possibilità di diventare uno sconosciuto nel giro di mezzo pomeriggio fra instagram e tiktok.
Non era un mistero che la realtà sia le categorie che possiamo applicarle, e che si può vivere in posti molti diversi e tempi completamente sfasati, anche dormendo sotto lo stesso baldacchino. Era vero prima e, adesso, è semplicemente più vero. I contesti si moltiplicano, in tutti non si può stare, tutte le battute non si capiranno mai, e quella sui vasi sì, ma quella sui moti delle particelle subatomiche assolutamente no. Il contesto è spesso atrocemente specifico, e a volte non c’è modo di prescinderne: per cui o si fa cenno di sì con la testa e si ridacchia, come quando non si è sentito proprio nulla; o si guarda inebetiti l’interlocutore, per dire che farebbe bene a spiegarsi, o tacere per sempre.
La rinuncia alla battuta sul vaso non mi costa molto. Aprirò un subreddit sugli amanti dei vasi fenomenologici. Risponderanno uno scandinavo e il vicino del sesto piano e una giovane promessa di un talk show. Questo è internet: un chi-cerca-trova su larga scala. Così si creano milioni di minuscole comunità sparse di iniziati, ciascuna col proprio contesto. Se vuoi partecipare ai loro misteri, non ci vuole molto: qualunque cosa sia bastano due o tre pagine di wikipedia e qualche tiktok a prenderci la mano. Siamo flessibili, veloci, scostanti. Ci piace dimenticarlo ma è comunque il ventunesimo secolo.
Ma anche con tutto il contesto e le nozioni di fenomenologia, magari l’aneddoto non sarebbe parso nulla di che. Ognuno vive le cose in modo diverso a seconda di come si sente, di certe predisposizioni psicologiche, da sentimentalista o benthamiano, e a seconda di arbitrarietà incalcolabili e quotidiane come quale dei due piedi ha messo prima per terra nello scendere dal letto. L’aneddoto a me ricorda che la fenomenologia mi è sempre rimasta un po’ un mistero. A rileggere ora Enzo Paci capisco perché. Tutto sommato, il contesto generale non era abbastanza: c’è un quid di personale, difficilmente trasmissibile, per fortuna. Si rafforza l’impressione di aver fatto bene a tacere.
E tornandoci oggi ci vedo un fascino indefinibile, e leggendo quelle pagine degli anni cinquanta mi viene in mente un vecchio film, non importa quale, perché la loro indistinguibilità tra bianchi e neri stemperati è parte dell’argomentazione, in cui una musica veniva attraverso la finestra, ed era una canzone bellissima, e il protagonista non ne ricordava affatto il nome, ma si accontentava di poggiarsi e ascoltare, con lo sguardo perso all’incrocio fra i tetti e la luna, finché la scena non si spegneva in penombra, e un’altra scena del tutto simile le subentrava. Trascendenza gentile, afflato soffuso. C’è qualcosa di mistico, c’è qualcosa di zen. Meditazioni al gusto di logos, guarda-stelle mid-siècle, legno, perché siamo in Italia, Plotino non è mai passato di moda, il cristianesimo è un po’ nell’aria, ma solo preti buoni, San Francesco non Savonarola. Come spiegare tutto questo alla cena del calcetto in due minuti? È un bel problema. È quella un’età dove è possibile la comunione con le cose fisiche, non dematerializzate, senza elettronica e meccanica, e perfino le azioni societarie sono ancora pezzi di carta, e non c’è il testo unico sulla finanza, e se abbracci un albero nessuno ti dice niente, e le auto non hanno l’iniezione diretta o il sincronizzatore, ma vecchi assordanti carburatori. Sono gli ultimi anni delle lucciole, come denuncerà Pasolini, come fanno intuire i racconti di marcovaldo di Calvino. È decisamente l’ultima volta. Si poteva essere mistici, secludersi a Camaldoli o ammirare con leopardiane pupille i moti degli astri e le fissità della luna, e ballare un lento sulle terrazze alle note di un giradischi, e alla sera pregare in ginocchio davanti al letto, e dormire semplici. Si ripropone la banalità di dire che era un mondo diverso, di preti e campagne e dc, di madonne e comunisti al santuario, di messe in latino e cose antiche e frac e cravatte, di pitture e giornali ad inchiostro, eterni amori e sposalizi, carta bianca e passaparola, melanconiche chiusure di spazi, cittadelle e paesini. È un’aria indefinita, da vecchio film e pianoforte. Ed era l’ultima volta.
Può darsi che sia questo il contesto definitivo. Può darsi che adesso la battuta riuscirebbe chiarissima, che spiegato il contesto la mutua comprensione sia come assicurata, e così sia salvo il nihil humani a me alienum puto e le aspirazioni all’universalismo. Ma perché? In fondo, non ce n’è nessun motivo. Si trattava di un semplice vaso.