Il robot selvaggio

A volte i cuori parlano tra loro a nostra insaputa’.

Stringo il biglietto sudato nella mia mano destra, mentre salgo di corsa le scale dell’Adriano. Mai una volta che arrivo puntuale: spalanco la porta affaticata, come se mi stesse rincorrendo qualcuno, entro in sala con un tonfo.

Nessuno si gira a guardarmi. La sala è quasi vuota: vedo solo due testoline solitarie, quasi in prima fila, che si muovono leggermente. Non mi affanno neanche a cercare il mio posto: il cinema questa sera è (quasi) tutto mio e appena in tempo, mi siedo. Questa volta non mi dovrò cercare su Wikipedia il riassunto delle prime scene.

E così, per cento minuti, mi dimentico totalmente del mondo che mi circonda, dei miei pensieri, delle analisi che devo fare, della brutta visita dal medico la scorsa settimana, del libro di procedura penale che sta iniziando ad accumulare polvere. Sono una foglia leggera trasportata dal vento di quell’isola deserta. Accompagno Roz nel suo cammino, vedo Beccolustro crescere, rido con Fink e torno bambina. La bambina che guardava meravigliata, con i due occhioni verdi spalancati, l’enorme schermo davanti a lei: i colori, la musica travolgente. Ogni pennellata un colpo al cuore.

Non mi emoziono per un film da tanto. Troppo. Pensavo che avrei provato trasporto per un film più lungo, impegnato magari. Ma ogni singola scena mi attira a sé, come se tirasse un filo appeso al mio cuore. ‘Vieni’, mi dice: ‘vieni’.

Con il Robot Selvaggio la Dreamworks è riuscita in quello che da dieci anni a questa parte alla Disney non viene più bene: raccontare una storia. Un umorismo maturo, che scherza con la morte e con la legge del più forte, che ti mette davanti ad una dura realtà: con la gentilezza non si sopravvive. In un’isola abitata da animali selvatici un robot aiutante si perde, alla ricerca di un compito da portare a termine, fino a che non si imbatte in quello più duro di tutti: le genitorialità. La formula sembra trita e ritrita, su quanto sia difficile fare il genitore, su come anche una scatola di latta anaffettiva ha un cuore e che l’amore alla fine abbraccia tutti. Ma la cosa incredibile del film è che non c’è nessuna formula: solo tanta, tantissima passione.

La colonna sonora aggiunge quel tocco in più ad un film che ha tutto di nostalgico, amorevole, commuovente. Un film che riesce a trattare della delusione, dell’odio, delle differenze, con un pizzico di ambientalismo, senza mai scadere nel banale o nel ridicolo. Non è un film perfetto, ha dovuto fare i conti con una casa di produzione che non ci ha creduto fino in fondo, che dava per scontato il suo fallimento al botteghino, con un abbandono quasi totale degli schemi narrativi dell’animazione occidentale.

Quello che è arrivato è un prodotto fresco, nuovo e incredibilmente sentito. E basta con i remake e i sequel: vogliamo storie, ne siamo affamati. A noi, i bambini cresciuti a pane e classici Disney, davanti alla televisione a seguire la storia di un panda che impara il kung-fu, accompagnati dall’infanzia all’adolescenza dalla lampada che saltella sulla i: vogliamo solo essere cullati mentre diventiamo adulti, magari da un robot e da una paperella che imparano il valore del sacrificio. Magari da una volpe che ha fatto i conti con la crudeltà della vita.

A un film che mi ha lasciato un’impronta sul cuore, che ho visto già abbastanza volte da sapere quasi a memoria: grazie. Grazie per avermi portato lontano da questa città, per avermi abbracciata e cullata con le tue note e i tuoi meravigliosi paesaggi. Grazie per le tue parole, per i tuoi dialoghi, per le cose che mi hai ricordato. Grazie per avermi parlato, cuore a cuore.