I social media hanno cambiato la nostra vita in maniera talmente profonda che per molti dei nati dopo il 2000, compreso me, sembra impossibile immaginare una vita senza.
Ogni volta che accediamo a un social che sia Instagram, Facebook o TikTok, la nostra mente è “bombardata e invasa” da centinaia di contenuti diversi (audio, video, foto) e, presi da grande curiosità, cerchiamo di recepirne quanti più possibili. Il problema è che il nostro cervello è in grado di fissare il pensiero su una quantità limitata di oggetti. Come scrive la Berkeley Economic Review: “La nostra attenzione è sempre stata limitata, preziosa e scarsa. Ma ciò che distingue il presente è che i progressi tecnologici hanno reso disponibile una quantità smisurata di informazioni, strategicamente mirate a catturare la nostra attenzione”. [1] Si tratta di una condizione nuova, per certi tratti inedita, in quanto non è mai successo nella storia umana di venire sovrastati a livello sensoriale.
La soluzione più banale sarebbe quella di ridurre il tempo trascorso al telefono ma non è così facile come sembra: stiamo parlando di una vera e propria dipendenza. È stato Tristan Harris, ex esperto di etica del design di Google, ad esporre in un saggio pubblicato nel 2016 su Medium [2] il motivo per cui, ogni volta che otteniamo un like o un commento, riceviamo una piccola gratificazione, cioè una scarica di dopamina che è alla base della nostra dipendenza da smartphone. Scrive l’informatico: “La cultura occidentale è costruita attorno agli ideali di scelta e libertà individuale. Milioni di noi difendono ferocemente il nostro diritto a fare scelte libere, mentre ignoriamo come tali scelte siano manipolate a monte da menu che non abbiamo scelto in primo luogo”. E continua: “Se sei un’app, come fai a tenere agganciate le persone? Trasformati in una slot machine”. Per far sì che questo avvenga viene usato un meccanismo che regola anche il gioco d’azzardo: il sistema di rinforzo intermittente positivo. Nell’esempio della slot machine, tirare la leva rappresenta l’azione intermittente e, dopo che viene composta la combinazione di segni sulle ruote, scopriamo se abbiamo vinto o perso. Se vinciamo, il nostro cervello produce dopamina (il rinforzo positivo); se perdiamo, non resistiamo alla tentazione di giocare di nuovo, nella speranza di conquistare la nostra ricompensa. I social network funzionano allo stesso modo: sfruttano la capacità del nostro cervello di generare all’improvviso delle scariche di piacere per tenerci inchiodati quanto più tempo possibile sulle applicazioni.
I nativi digitali, salvo rare eccezioni, sono tutti nati con il telefono in mano, si sono trovati immersi in un mondo pieno di input e da subito si sono dimostrati come i clienti più proficui di quella che oggi viene chiamata l’“economia dell’attenzione” [3]: gli utenti devono decidere su cosa vale la pena dedicare il proprio tempo e i social media cercano di fornire loro i prodotti migliori per adescarli. Non a caso, già nel 2015, il Time Magazine, basandosi su uno studio condotto dalla Microsoft, scriveva: “You Now Have a Shorter Attention Span Than a Goldfish” [4] (Ora hai una capacità di attenzione più breve di un pesce rosso). Un titolo tanto accattivante quanto drammatico considerando che il succo dell’articolo è che la Generazione Z non riuscirebbe a concentrarsi per più di 8 secondi.
La paura che i social possano influenzare negativamente le nuove generazioni si diffonde giorno dopo giorno e porta spesso a soluzioni drastiche. Si pensi al recente caso americano: Washington sta obbligando TikTok a vendere le proprie quote o a lasciare il paese per i presunti legami con il governo di Pechino. Mike Gallagher, presidente della commissione d’inchiesta della Camera dei rappresentanti sulla Cina, ha infatti definito il social media “una minaccia alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti” e ha aggiunto che “sotto la struttura proprietaria di ByteDance il governo cinese ha la capacità di manipolare l’algoritmo di TikTok, sorvegliare i suoi utenti e condurre operazioni di influenza che popolano silenziosamente le pagine “Per Te” degli americani.” [5]
Questi timori, per quanto esagerati, poggiano tuttavia su dati di fatto. Scrollare continuamente i reels di TikTok, navigare tra gli shorts di Youtube o mettere a X2 gli audio di WhatsApp, sono tutte piccole azioni che, se ripetute nel tempo, ci rendono, nolenti o volenti, meno disposti a focalizzarci su ciò che ci accade intorno e più influenzabili. Come sottolineato da alcuni studi neurologici: “Con un semplice ‘refresh’ (aggiornamento), nuove informazioni costanti sono a portata di mano. Attraverso un processo chiamato ‘rinforzo a rapporto variabile’, sei costantemente entusiasta e ricompensato nel vedere nuovi post” [6]. Le conseguenze più nefaste sono le ripercussioni sulla cosiddetta “neuro-plasticità”, ossia “la capacità dei neuroni e delle reti neurali nel cervello di modificare le proprie connessioni e il proprio comportamento in risposta a nuove stimolazioni sensoriali” [7]. Questa capacità si sviluppa nella prima infanzia, un periodo critico dello sviluppo, durante il quale “il sistema nervoso deve ricevere determinati input sensoriali per svilupparsi correttamente” [8].
Anche la politica, non potendo fare a meno del consenso dei cittadini, muta pelle e si adegua ai nuovi tempi. I programmi elettorali, troppo lunghi e noiosi per un pubblico così poco zelante, vengono sostituiti da pochi slogan a effetto, elaborati grazie alle nuove e raffinate tecniche di neuro-marketing. La figura dell’influencer, fino a poco tempo fa ancora relegata nei post e nelle storie, fa la sua apparizione nell’agone politico. Vediamo risorgere più forti che mai le retoriche populiste che volutamente si rivolgono alla pancia degli elettori: non vogliono sviluppare la loro capacità critica bensì creare individui impulsivi e facilmente manipolabili da discorsi generalisti e sensazionalistici. Si potrebbe quasi paragonare l’elettorato delle democrazie liberali a chi soffre della sindrome da deficit di attenzione: gli individui colpiti da questo disturbo infatti presentano una soglia di attenzione molto bassa e spesso agiscono senza riflettere.
Perfino un report dal titolo “Tecnologia e democrazia: capire l’influenza delle tecnologie online sul comportamento politico e sul processo decisionale”, pubblicato nel 2020 dal Centro comune di ricerca (JRC) della Commissione europea, sottolinea questa criticità: “la sovrabbondanza di informazioni disponibili ha reso le persone cognitivamente più impoverite che mai. Poiché la capacità informativa del web aumenta, si possono prendere in considerazione più questioni, ma il livello di attenzione disponibile del pubblico per ciascuna questione diminuisce. Questa non è una semplice speculazione. L’analisi rivela che mentre nel 2013 un hashtag su Twitter era popolare in media per 17,5 ore, nel 2016 questo intervallo di tempo è sceso a 11,9 ore”. [9] Nel testo viene anche denunciata l’“inerente asimmetria” dell’economia della attenzione dal momento che “mentre le piattaforme sanno molto sui loro utenti – e anche sulle persone che non sono sulle loro piattaforme – e utilizzano tale conoscenza per modellare la nostra dieta informativa, i cittadini sanno poco su quali dati conservano le piattaforme e su come vengono utilizzati per personalizzare la nostra esperienza online” [10].
Se volessimo fare un esempio emblematico del nuovo rapporto media-politica, potremmo ricorrere a Trump, un pioniere nell’utilizzo dei social nella comunicazione politica. Durante la sua campagna elettorale del 2016 e durante il suo mandato presidenziale, Trump ha fatto un uso massiccio dei social media, in particolare di Twitter, per condividere dichiarazioni ufficiali e commenti personali.
Si potrebbe addirittura parlare di “trumpismo digitale” [12] per descrivere lo stile comunicativo provocatorio usato da certi politici per attirare l’attenzione dei media e generare dibattiti pubblici. Questa strategia ha il vantaggio immediato di creare una base di sostenitori fedeli che contribuiscono a diffondere il messaggio del leader ma, al tempo stesso, riproduce, con le dovute differenze, quello che Erich Fromm aveva chiamato “carattere autoritario”, ovvero “la tendenza a rinunciare all’indipendenza del proprio essere individuale, e a fondersi con qualcuno o qualcosa al di fuori di sé stessi per acquistare la forza che manca al proprio essere” [13], che il filosofo aveva riscontrato nei fascismi del primo Novecento. Non voglio certamente equiparare la nostra condizione all’atmosfera repressiva dell’Italia del Ventennio ma è innegabile che vi siano delle analogie: la quasi totale passività delle masse nei confronti del fenomeno politico e l’acuto personalismo di certi partiti. Queste piaghe dilagano in tutto l’Occidente e la democrazia perde mano a mano la sua ragion d’essere degenerando in una pantomima nella quale viene votato chi fa più audience e riceve maggiore visibilità. O peggio ancora, si decide direttamente di non andare a votare. Il finale tragicomico a cui assistiamo è che, insieme al numero di followers dei politici, cresce anche quello degli astenuti alle prossime elezioni.
[1] https://econreview.studentorg.berkeley.edu/paying-attention-the-attention-economy/
[3] https://econreview.studentorg.berkeley.edu/paying-attention-the-attention-economy/
[4] https://time.com/3858309/attention-spans-goldfish/
[5] https://www.rollingstone.com/politics/politics-news/mike-gallagher-tiktok-ban-palantir-1234993167/
[6] https://neurogrow.com/what-social-media-does-to-your-brain/
[7] https://www.britannica.com/science/neuroplasticity
[8] Ibidem
[9] https://publications.jrc.ec.europa.eu/repository/handle/JRC122023, p.27
[10] Ivi, p. 15
[11] https://www.bbc.com/news/world-us-canada-56004916
[13] Fromm E., Fuga dalla libertà, Edizioni di Comunità, Milano 1977, p. 127