In un’epoca di crisi globali e sfide complesse, le tradizionali metriche di successo aziendale che pongono al centro la massimizzazione del profitto, la crescita costante degli utili e la soddisfazione degli azionisti risultano oggi non del tutto efficaci per comprendere il ruolo dell’impresa nel contesto socioeconomico in cui è immersa.
È molto facile sentire evocati i nomi di grandi società al pari di Alphabet, Meta o Amazon come esempi di eccellenza a causa delle loro capacità di generare profitti mastodontici e dominare completamente la concorrenza nei diversi settori di cui si occupano – tant’è che a volte si arriva addirittura a parlare di monopolio, come nel caso della recente accusa da parte delle autorità antitrust ai danni di Google per “monopolio illecito”.
Tuttavia, una riflessione più profonda ci consente di capire che in molti casi il successo è tale solo se ci si limita ad analizzarlo attraverso la lente dei bilanci delle aziende. E siamo davvero sicuri che questo sia il modo migliore, oggi, per definire un’azienda di successo?
È necessario ripensare i paradigmi che definiscono la riuscita di un’impresa, adottando una visione più olistica che riesca a tenere conto dell’impatto sociale delle attività economiche dell’impresa. In Italia, possiamo vantare una tradizione di visionari che avevano capito la necessità di ridefinire il successo aziendale già molti decenni fa. Tra i più noti, spicca sicuramente l’imprenditore italiano Adriano Olivetti (1901 – 1960), che anticipava come l’impresa non dovesse limitarsi ad essere una macchina che massimizza i profitti, ma anche rappresentare una comunità che opera al servizio dell’uomo, contribuendo alla dignità e al benessere presente e futuro della società in cui è inserita. Le parole di Olivetti sono testimoni di un’accesa voglia di creare un’impresa che doni valore alla società nel suo complesso. Nel caso della Olivetti, tutto ciò si concretizzò nella creazione di programmi di welfare aziendale (comprendenti servizi sanitari, scuole, biblioteche e strutture ricreative), nello sviluppo di un vero e proprio piano urbanistico a Ivrea, sede dell’azienda, con l’obiettivo di creare un ambiente che integrasse armoniosamente lavoro e vita privata, nella promozione della cultura e dell’educazione e nel coinvolgimento dei dipendenti nel processo decisionale aziendale.
Olivetti riuscì a creare un ambiente di lavoro capace di permettere ad ogni individuo di sentirsi valorizzato e coinvolto attivamente nel plasmare il destino dell’azienda. È possibile allora azzardare un paragone con lo stile tipico di conduzione delle aziende giapponesi, le quali dànno grande importanza alla sopravvivenza nel lungo termine. Come farlo? Loro ritengono sia fondamentale l’armonia in azienda. Questa, a sua volta, è raggiunta attraverso un insieme di soluzioni, tra cui: far sentire il lavoratore parte integrante di una squadra con un obiettivo comune. Allora, il lavoro di ognuno diventa il gradino che permette all’intera impresa di avvicinarsi sempre più al suo obiettivo.
Forse è proprio qui che risiede il segreto per rilanciare l’industria, per rilanciare il lavoro. È giunto il momento di dire basta alla classica visione del rapporto fra datore di lavoro e lavoratore, tra sfruttatore e sfruttato. In un’azienda che funziona per il bene della società non c’è niente di tutto questo: ci sono uomini e donne che si tengono per mano e, sincronizzati, marciano verso un obiettivo comune, plasmano assieme il futuro dell’azienda.
Si ridefinisce il ruolo stesso dell’imprenditore. Egli cessa di essere un soggetto che opera solo in vista della massimizzazione del profitto, e si incarica del delicato ruolo di protagonista della trasformazione della realtà in cui è immerso. Da imprenditore passa ad essere imprenditore-cittadino, perché comincia a vedere l’impresa che conduce come parte di un ecosistema sociale più ampio, che allora si trova a poter rimodellare e guidare verso un cambiamento positivo.
Si tratta di un approccio diverso al lavoro e allo stare al mondo, che ha il potenziale di creare una collaborazione sinergica tra individui altrimenti atomizzati: insieme, scelgono di prendere le redini della propria comunità e, guidati dalla figura dell’imprenditore, si muovono verso la creazione di un ecosistema fertile e positivo per il loro presente, ma soprattutto per il loro futuro.
È chiaro che il contesto socio-economico contemporaneo richiede una nuova concezione dell’impresa e del ruolo dell’imprenditore. È tempo di abbracciare un modello di business che metta al centro l’essere umano e che riconosca la responsabilità sociale dell’impresa come parte integrante della sua strategia. Solo così si potranno affrontare efficacemente le sfide del nostro tempo e trasformare il mondo del lavoro in un ambiente in cui dignità e potenziale umano siano rispettati e valorizzati. Non è solo un imperativo morale: è una necessità economica per garantire la sostenibilità e la prosperità a lungo termine delle imprese di oggi e di quelle del domani.