Abbiamo ancora bisogno dell’America? Domanda scomoda che numerose persone si pongono e alla quale fin troppi credono di aver trovato una risposta.
«Gli Americani pensino alle loro cose» «Sono solo dei guerrafondai» «È colpa loro se c’è la guerra» «Hanno fatto i loro interessi e adesso che non gli conviene più hanno lasciato stare»: queste sono solo alcune delle classiche frasi ormai stereotipate che si sentono pronunciare quando vengono chiamati in causa gli Stati Uniti. I più accorti si chiedono il perché di quest’odio così radicato e inutile, frutto di un rancore immotivato che non fa altro che alimentare e nutrire i progetti di coloro i quali hanno realmente intenzione di distruggere il Mondo Occidentale e i suoi valori. A nulla sono valsi i moniti di Oriana Fallaci ne “La rabbia e l’orgoglio”, ne “La forza della ragione” e in “Oriana Fallaci intervista sé stessa- L’Apocalisse”, libri nei quali la giornalista rammenta ad un popolo ormai assopito, gli italiani, la sua grande e millenaria storia, criticando la mediocrità dei governanti e riflettendo su quali siano le nuove dittature cui opporsi, esaltando infine il valore della democrazia – con tutto ciò che culturalmente essa comporta.
Come guardare allora agli Stati Uniti? Bisogna considerarlo uno scomodo vicino che pretende troppo e non dà nulla in cambio, oppure bisogna intenderlo ancora come un prezioso alleato che, nonostante un ventennio di crisi, continua in maniera impeccabile a difendere i valori americano-occidentali? La seconda risposta è quella corretta, e nonostante i detrattori possano non essere d’accordo, una motivazione razionale e ben precisa si nasconde dietro tale affermazione.
Innanzitutto rammentare l’importanza di due date: 8 maggio 1945 e 5 giugno 1947.
L’8 maggio, dopo quasi sei anni di guerra, l’eccentricità e la testardaggine del governo nazista cedono di fronte all’avanzata alleata e il generale Alfred Jodl e il feldmaresciallo Wilhelm Keitel firmano la capitolazione del Terzo Reich. Gli americani, con le conquiste compiute sul suolo europeo, arginano l’avanzata sovietica e definiscono in tal modo i confini politici dell’Europa Occidentale.
Il 5 giugno di due anni dopo, il Segretario di stato americano George Marshall annuncia che gli Stati Uniti metteranno in atto l’ERP (European Recovery Program, che diverrà presto noto come Piano Marshall), con lo scopo di sostenere l’economia e lo sviluppo europeo, colpiti dalle follie delle dittature nazi-fasciste. La Guerra Fredda ha così inizio.
Al giorno d’oggi, per coloro i quali vivono di comodità e senza una pioggia di bombe che sconquassa l’abitazione in cui si è nati, è facile giudicare e puntare il dito verso colui che è ritenuto il più forte; ma se gli Stati Uniti non avessero deciso di stanziare gli aiuti per il nostro Paese, certamente l’Italia e gran parte degli altri Stati europei non sarebbero attualmente delle Nazioni stabili, guidate da governi democratici. La ferita aperta lasciata dal fascismo e dal nazismo è stata da principio curata da un governo nato di recente che ha mandato dall’altra parte del globo i suoi giovani migliori, pur di abbattere l’aquila rampante e il fascio littorio.
Nonostante le critiche mosse all’America, risulta evidente che le radici politiche e sociali della democrazia alla base della nostra Repubblica derivino da un clima di stabilità e certezza che da tempo mancava e che la fine della guerra ci ha garantito. Come è noto, dagli anni Cinquanta fino agli anni Novanta, gli Stati Uniti, con l’intento di mantenere stabile lo scacchiere geopolitico mondiale, hanno inanellato numerosi conflitti ai quali l’Italia non si è sottratta in qualità di volenteroso alleato (si pensi ad esempio alla Guerra di Corea e alla Prima Guerra del Golfo). L’URSS, con le sue privazioni e le sue oppressioni, ha provato ad imporsi come modello esemplare battendosi in nome di una libertà falsa ed illusoria, cercando di infangare il mondo occidentale e la leadership statunitense. I conflitti combattuti tra giungle e deserti altro non sono stati che l’esecuzione materiale della battaglia interminabile che ha travolto il mondo spaccato in due blocchi distinti.
Eppure, nonostante l’Europa occidentale sia rimasta sempre fedele al suo benefattore, negli ultimi vent’anni qualcosa è cambiato. Da quando falce e martello hanno smesso di sventolare sul Cremlino e l’Unione Europea è nata, un nuovo equilibrio si è imposto nella nostra società. Quello che era il blocco occidentale ha iniziato ad attirare paesi (come Polonia e Ungheria) vessati dal comunismo e desiderosi di un nuovo e prospero stile di vita. L’apparente stabilità economica e la speranza di una pace duratura, tuttavia, sono stati sconvolti da un terribile evento e da una data infausta, destinati a mutare per sempre la nostra Storia: l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Ha così inizio la guerra al terrorismo, un nuovo tipo di conflitto armato che vede coinvolto il mondo intero. Dal sangue dei martiri statunitensi nasce la lotta contro invasati e uomini malvagi che hanno scelto l’oscurantismo e la forma di patriarcato più infido ed infame come “programma” per un “nuovo mondo”. La presidenza di George W. Bush, figura amata ed odiata, è stata forse la più coraggiosa nell’opporsi al nuovo male imperante nelle regioni del Medio Oriente e dell’Asia meridionale, opposizione tradita dalla vigliaccheria politica del governo Trump e proseguita dalla debolezza della presidenza Biden, trovatasi a sostenere due fronti, uno interno (l’assalto a Capitol Hill) e uno esterno (il ritiro dall’Afghanistan). Abbiamo oggi forse dimenticato i fumi neri che riempivano le strade di Manhattan? Abbiamo forse chiuso gli occhi di fronte alla vista del Ground Zero? E abbiamo forse dimenticato il nostro dovere di cittadini del mondo, imbevuti di filosofia e arte nelle cui vene, dalla persona più umile alla più ricca, scorre la cultura dei grandi, Platone, Aristotele, Michelangelo, Raffaello, Giulio Cesare, Napoleone Bonaparte e così via in una lista sconfinata in cui è difficile scorgere la parola fine?
In seguito alla crisi politica, sociale, etica ed economica che conflitti come quello in Afghanistan e in Iraq hanno scatenato nel mondo occidentale, la figura dell’America paladina dei diritti e della libertà ha iniziato ad appassire e il sistema dell’esportazione della democrazia non è più stato ritenuto valido. Eppure, nei paesi islamici, la democrazia ha permesso a tante donne obbligate a mettersi il velo e a rimanere prigioniere in casa di studiare all’università, lavorare e indossare i jeans, azioni che possono sembrare scontate ma che in molti luoghi del mondo sono impensabili. L’allontanarsi delle truppe della NATO dai paesi bisognosi è stato invece ciò che ha fatto precipitare in un nuovo Medioevo luoghi un tempo ricchi di cultura, privando della libertà cittadini inermi.
Dunque abbiamo ancora bisogno dell’America? Nel nuovo equilibrio internazionale nuovi conflitti e nuovi obiettivi politici solcano i nostri orizzonti. Nonostante le apparenze, l’America non ha perso il suo ruolo di guida. Anche nell’ombra infatti, Washington prosegue nella sua incessante lotta per mantenere intatta la stabilità mondiale e ciò è possibile verificarlo pensando alle guerre combattute in Ucraina e in Medio Oriente (per non dimenticare che è solo grazie alla presenza della flotta statunitense nel Pacifico e delle basi americane in Giappone che alla Cina viene effettivamente impedito di invadere Taiwan), dove gli USA, nel bene e nel male, proseguono nel loro tentativo di mediare e di rappresentare gli interessi dell’Occidente. Senza gli Stati Uniti, le potenze europee perderebbero un forte e fondamentale appoggio che garantisce sicurezza e certezza nel mondo; e ciò sarà ancor più evidente quando le elezioni presidenziali saranno concluse. In un mondo in cui l’egemonia statunitense e occidentale vengono contrastate, ora più che mai bisogna stare compatti e non rinnegare quello che un tempo era conosciuto come il Nuovo Mondo, un luogo che rimane e rimarrà per sempre legato alle nostre radici e alle nostre storie.
La risposta affermativa alla domanda che apre l’articolo non è altro che un’esortazione: a riflettere sulla scelta giusta, su una coesione che sembra sgretolarsi ma che rimane la chiave, su una pace che deve essere l’obiettivo ultimo.