Le politiche di innovazione sono misure volte a trasformare i processi produttivi tramite investimenti in ricerca e sviluppo, nonché attraverso la creazione di nuove competenze – per lo più tecnologiche – tali da facilitare una cultura innovativa che pervada l’intera sfera economica. L’Italia, ma invero l’Unione Europea tutta, deve confrontarsi con questi obiettivi ogni giorno.
Il bel Paese, risaputamente, fa difficoltà a starvi dietro, a causa del peso di scelte sbagliate nel passato, della scarsità di finanziamenti alla ricerca e di un insufficiente trasferimento di tecnologie e saperi da quest’ultima all’impresa privata, la quale sconta da parte sua i problemi legati alla sua esigua dimensione. Le motivazioni sono molteplici e le colpe son di tutti e di nessuno. In parte, questa involuzione è dovuta all’impreparazione della classe politica. Oggigiorno, più o meno ogni consigliere comunale, saprebbe a grandi linee proporre un piano di pace per la Palestina, ma pochi deputati su due piedi potrebbero ragionare dettagliatamente di EU AI Act o dei documenti europei di politica industriale.
Se ai tempi di De Gaulle le Président de la République poteva permettersi di disdegnare la bassa politica, quella economica e industriale, ritenendola roba per burocrati e politici incapaci, oggi non è proprio più il caso. Chissà cosa direbbe le chef de la résistance se sapesse che oggi, a Bruxelles, l’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri viene deriso dai media più importanti, mentre il Commissario alla Competitività è tenuto in sempre altissima considerazione e si vede allargato il proprio portafoglio di competenze.
I problemi strutturali dell’industria italiana
Tornando al nostro Paese, ciò che spicca è una mancanza di politica industriale ben definita di fronte a sfide globali dalla sempre più difficile soluzione: tra queste, la corsa all’innovazione, il recupero di semiconduttori per rendere possibile quest’ultima e la resistenza ai contendenti del mercato globale quali India e Cina. Quello che qui argomentiamo è che il problema sia proprio la struttura della nostra industria, oltre che lo scarso coraggio di politiche che vanno solo a dare bonus e a finanziare l’esistente senza pensarci troppo.
Negli anni settanta la grande industria italiana iniziò piuttosto volontariamente a smantellarsi. L’alta conflittualità dei sindacati rendeva ben più appetibile il modello della piccola media impresa (PMI), nella quale scioperi e consigli operai non potevano, dati i numeri esigui, dare vita a grandi problemi. Fiorirono allora i distretti industriali, ossia agglomerati di PMI fortemente inter-dipendenti l’una dall’altra. Era il modello dei tanti pesci piccoli che formano uno squalo. Fu così per il tessile a Prato, gli imballaggi a Bologna, la pasta a Napoli e tanti altri.
La battaglia coi sindacati fu poi vinta: vi contribuirono la mancata svalutazione della lira negli anni ottanta, la quale diede il colpo di grazia alla scala mobile, e un vento da est sempre più flebile a causa delle riforme del compagno Gorbachev. Il prezzo da pagare fu la perdita della capacità innovativa che solo la grande industria poteva dispiegare, essendo la sola a poter spendere in alte tecnologie e nell’assunzione di manager in grado di traghettare la produzione verso la modernità.
Le PMI italiane, invece, restarono bloccate nella conduzione familiare tipica della provincia, in cui si fa tutto in casa. Rare eccezioni ci furono laddove il distretto faceva parte dell’indotto di una industria più grande, come a Torino la FIAT. Ma, oggi, sappiamo tutti come quella storia sia andata a finire.
Dio salvi la piccola media impresa
Da quel momento in poi, la piccola media impresa è divenuta il totem dello sviluppo economico italiano, anche quando questo ha preso piuttosto i connotati del declino. Sia chiaro, le PMI sono state l’unico paracadute italiano nelle crisi del 1992, del 2008, del 2011 e nel Covid-19. Sono l’architrave del risparmio italiano, quanto ci ha salvato più volte dal baratro. Ma il problema è che esse non investono quanto risparmiano, e se lo fanno il risultato è una atomizzazione incapace di attrarre talenti e competenze.
Che le PMI siano tenute in alta considerazione, lo testimonia il fatto che oggi nominalmente l’Italia non abbia un ministero per l’industria, ma un Ministero delle Imprese (MIMIT). Quest’ultimo dovrebbe essere il think tank di Stato per la politica industriale, ma questa capacità è stata ostacolata dai mille rivoli di crisi permanenti come Alitalia, Whirlpool ed ILVA. In tale scenario il MIMIT ha trattato le PMI come bene rifugio. Vi sono stati alcuni tentativi di superare questo paradigma, ma gli esiti hanno rieccheggiato il motto gattopardiano «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».
Nel 2016, infatti, fu proprio la consapevolezza della mancanza di grandi attori in grado di guidare la trasformazione del manifatturiero e delle catene di valore a dare vita al Piano Industria 4.0, volto ad automatizzare e razionalizzare la manifattura italiana e, a catena, tutti gli altri settori. 13,3 miliardi di euro stanziati per il triennio 2017-2020 e quattro linee di intervento: incentivare gli investimenti in innovazione, creare nuove competenze, rafforzare le infrastrutture e garantire un supporto pubblico agli investitori nazionali e non. Tuttavia, prima ancora che il piano entrasse a pieno ritmo, numerose pressioni da parte dei gruppi di interesse hanno condotto ad allargare la platea dei beneficiari alle PMI, ribattezzando il piano Impresa 4.0 e disperdendo le risorse che, originariamente, servivano a creare nuovi grandi campioni per l’industria dello stivale.
Il supplente sistema italiano dell’innovazione
Un’iniziativa di pregio è stata la creazione di otto Centri di Competenza ad Alta Specializzazione. Questi ultimi sono vere e proprie hub che offrono servizi preposti a rafforzare il trasferimento tecnologico tra la sfera pubblica e privata. Dispiegano supporto nell’innovazione e nella ricerca industriale e sviluppano esperimenti per realizzare nuovi prodotti, processi o servizi con tecnologie avanzate. 40 milioni stanziati tra il 2017 ed il 2018.
Nel 2023, a questi ultimi centri, si sono affiancati tredici European Digital Innovation Hub (EDIH), organi simili sponsorizzati da Bruxelles con un focus sulla diffusione, l’educazione e l’applicazione delle tecnologie squisitamente digitali. Altri ventiquattro centri, denominati Seal of Excellence, sono via via divenuti operativi, non essendo nient’altro che EDIH che hanno dovuto cercare una forma di finanziamento alternativa alle risorse europee, incapace di finanziare ulteriori centri.
Il PNRR, con un investimento di 350 milioni, ha voluto poi far sì che tra le tre tipologie di centri si creasse una rete razionalizzata – ergo, direbbero gli studiosi di innovation management, un sistema nazionale dell’innovazione. L’obiettivo del PNRR è che i centri riescano a servire oltre 5000 PMI entro il 2026 per un totale di 307 milioni in prestazioni. L’idea è ambiziosa ma, proprio per i connotati del tessuto imprenditoriale italiano, rischia di distogliere l’attenzione dal vero problema: chi guida la transizione 4.0 e digitale? Le PMI, come detto, non hanno questa capacita, ed i vari centri di cui si è parlato rafforzano e non superano il modello del distretto industriale. Certo, si potrebbe dire che una simile iniziativa prende atto dell’immodificabilità di quest’ultimo e mira ad agire rebus sic stantibus. D’altro canto, pensare che la prevalenza dei pesci piccoli e l’assenza dei grandi sia un dato di destino è fuorviante.
La storia di Davide e Golia fa certo pendere verso il primo, ma non bisogna dimenticare che comunque, dopo aver vinto, l’antenato di Gesù divenne un Re e cercò di costruire uno Stato forte. Questo per dire che storie di eccellenza come le PMI sono belle da raccontare, ma sono solo la base per la creazione di qualcosa di più grande. La realtà è che l’Italia ha perso la grande industria, che non si è dematerializzata ma ha solo delocalizzato o si è parcellizzata. Una politica industriale si limita a supplire alle carenze dell’esistente ed è poco lungimirante se basata solo su bonus e crediti di imposta, cioè i principali strumenti sia del piano del 2016, che delle successive evoluzioni Piano Transizione 4.0 e 5.0.
Il gioco delle tre carte
È come se si avesse abdicato alla possibilità, prevista dalla nostra Costituzione, che l’iniziativa privata sia «indirizzata e coordinata» (art. 41). Oggi, piuttosto, si supplisce alle sue carenze solo nel breve termine, senza immaginare una via d’uscita dal tunnel. Nel 2024 l’OCSE ha certificato per l’ennesima volta come l’Italia ancora non sia adeguatamente competitiva, trovando nella mancanza di innovazione e dei relativi investimenti una delle maggiori cause.
In un coevo report, la stessa organizzazione ha certificato le difficoltà del Paese nel trasferimento tecnologico per via dell’eccessiva burocrazia, del divario nord-sud e dell’assenza di adeguati incentivi di carriera ai giovani talenti. Come si è detto in apertura, le responsabilità sono condivise, ma appare plausibile che il modello dell’impresa a conduzione familiare, almeno sull’ultimo punto, non sia forse adatto.
Il Piano Industria 4.0 aveva chiaro quest’ultimo punto. All’evento di presentazione del Piano si disse, appunto, che la mancanza di campioni e grandi player nell’industria italiana era un problema, ma quelle parole sono cadute nel vuoto. Si procedette con la creazione di un corpo senza testa, un indotto senza fonte, alimentato dal mito della piccola-media borghesia che si ingegna e fa successo. Ben venga, ma laddove PMI e grande industria crescono all’unisono – si pensi agli Stati Uniti o alla Germania – l’una alimenta l’altra con un beneficio globale inestimabile.
L’evoluzione della (quasi) politica industriale italiana pare, invece, perseguire uno scopo diverso: mettere sotto il tappeto le macerie della crisi industriale che attanaglia il paese, utilizzando come foglia di fico il successo e la resilienza delle PMI. Pregievoli attori che, tuttavia, non possono essere incaricati di risollevare il Paese, a causa della loro piccola e modesta dimensione.
Si è fatto il gioco delle tre carte: guardare ai piccoli eccellenti per mascherare l’assenza dei grandi. Ma, come tutte le illusioni, anche questa è destinata a finire. Un giorno, il problema del declino dovrà essere seriamente affrontato.