Premessa
Per circa dodicimila anni, a partire dall’introduzione delle pratiche di caccia, raccolta, coltivazione e pastorizia, la specie umana ha abitato e ridisegnato gran parte della superficie terrestre. L’esito: la crisi della biodiversità, la riduzione delle terre cosiddette ‘selvagge’, il progressivo allontanamento dell’uomo dalla natura e l’assenza di esperienza con e in quest’ultima.
I mosaici paesaggistici nei quali viviamo (centri urbani più o meno estesi e densi, campi agricoli o dediti al pascolo, biomi tradizionali, ecc.) vedono una sempre meno equilibrata convivenza – al limite della ‘polemica’ (nel senso greco del termine: guerra) – tra mondo umano e mondo naturale. Molti studiosi ritengono che questo dipenda da una naturale disposizione dell’uomo, il quale, come qualsiasi altra specie, ha sviluppato sin dall’antichità delle prassi di ingegneria ecosistemica e delle strategie di sopravvivenza che hanno determinato la costruzione della sua nicchia ecologica.
Qui si cercherà di individuare, a partire dal trattato aristotelico della Politica, una nuova linea interpretativa circa le fondamenta etiche che in passato così come nel presente sorreggono l’azione impattante antropica sull’ambiente e sugli altri esseri viventi.
L’uomo: il padrone del fine
La storia dell’agency umana sulla natura e sull’ambiente non conosce tanti momenti di discontinuità. Nella rappresentazione tradizionale, quelle che per convenzione rappresentano le principali transizioni energetiche, quali la scoperta del fuoco, l’introduzione dell’agricoltura e dell’allevamento, l’utilizzo del carbon coke prima e del petrolio e del gas metano poi, lo sviluppo del nucleare e la promessa dell’idrogeno, costituiscono i soli momenti che hanno rivoluzionato il rapporto uomo–natura. Per il resto si può constatare una certa uniformità nel tempo.
Ne è dimostrazione il fatto che gli interventi umani nello spazio attuati nell’antichità non sono così diversi da quelli contemporanei. Possiamo così sintetizzarli: (a) attività estrattiva, (b) addomesticamento e perfezionamento (anche genetico) delle specie animali e vegetali, ed (c) immissione di residui organici e inorganici nell’ambiente.
Dei tre, certamente quest’ultimo risultava trascurabile in termini di danni ambientali, poiché le società antiche e preindustriali non producevano grandi quantità di residui mediante le attività di consumo e produzione. Inoltre, erano prodotti biodegradabili, ad eccezione di quelli di derivazione dall’attività metallurgica, come gli oggetti a scopo bellico.
Non si può affermare lo stesso, invece, circa i primi due.
L’attività estrattiva, ovvero il prelievo di risorse animali, vegetali e minerali, e la modifica dello spazio e dell’ambiente a vantaggio dell’uomo rappresentarono le cause dei principali dissesti idrogeologici dell’epoca. Ad esempio, il dilavamento del suolo e la prassi di deforestazione per l’acquisizione di spazi da dedicare all’agricoltura e alla pastorizia, per l’approvvigionamento di legname per le attività di sussistenza domestica e la cantieristica navale, e per la costruzione di edifici privati e di pubblico servizio (teatri, ginnasi, bagni, giardini, e così via), causarono frane e incendi abbastanza frequenti e una progressiva erosione del suolo, talvolta accelerata dall’azione simultanea di tempeste, inondazioni o forti venti.
Ci sono fonti che attestano la promozione già all’epoca di prassi politiche – che noi definiremmo in maniera impropria e anacronistica ‘ambientaliste’ – miranti perlopiù alla tutela del patrimonio boschivo (anche qui i termini ‘tutela’ e ‘patrimonio’ sono impropri). Tra le più note sono la proposta platonica nelle Leggi di una sanzione per gli agricoltori che causassero dolosamente l’incendio di alberi altrui in prossimità dei loro campi, e la politica di ripiantumazione del faraone dell’Egitto ellenistico Tolomeo III Evergete. Ma si tratta, tuttavia, di casi rari.
Tale sporadicità era dovuta, innanzitutto, all’impossibilità osservativa delle dinamiche di causalità e con–causalità: in passato i cambiamenti ambientali e climatici di derivazione antropica non erano rapidi e improvvisi come quelli attuali e, di conseguenza, non erano osservabili nella loro intera e compiuta processualità. Non potendo risalire alle cause a partire da effetti che si verificavano molto tempo dopo, gli antichi non avevano la possibilità di comprenderli e fornirne una giustificazione reale e razionale.
In secondo luogo, si riteneva erroneamente che la natura vivesse come in uno stato di eterno equilibrio – concezione sintetizzata dalla teoria del balance of nature. Si sosteneva, ad esempio, che le specie fossero atte a riprodursi ciclicamente per compensare la necessaria corruzione dei corpi e così conservare sul piano sia quantitativo sia qualitativo l’ordine originario sotteso all’intera macchina terrestre della vita.
In terzo e ultimo luogo, l’abilità nel manipolare e plasmare la natura divenne anche motivo di orgoglio e vanto. I Romani si pregiavano di aver realizzato «nel mondo naturale […] una seconda natura» (Cicerone, De natura deorum, Libro II, parte LXI, §152) grazie alle grandi capacità tecniche d’intervento sull’ambiente di cui solo loro disponevano. Si pensi alla centuriazione, alle opere d’irrigazione, agli acquedotti, al sistema fognario, a quello viario, alla costruzione del limes per separare lo spazio incolto e boscoso della barbarie da quello dei cives di Roma.
C’era quindi, da una parte, una imprecisa percezione della realtà; ma dall’altra si costituì una vera e propria ideologia che sosteneva e legittimava le prassi manipolative dello spazio e dell’ambiente a vantaggio dell’uomo. Le origini di tale ideologia le troviamo nel Libro I.8 della Politica di Aristotele (edizione Laterza, curata da R. Laurenti), ove leggiamo:
Ora, ci sono molte specie di alimentazione, per cui ci sono pure molte forme di esistenza, sia tra gli animali, sia tra gli uomini: non si può infatti vivere senza alimenti e, quindi, la diversità della nutrizione ha prodotto le diverse forme di vita degli animali. […] Lo stesso è per gli uomini. Anche i modi di vita di costoro differiscono molto. […] Ecco, dunque, all’incirca i generi di vita, per quanti almeno hanno un’attività produttrice autonoma e non si procurano il cibo mediante gli scambi o il commercio: vita del nomade, del predone, del pescatore, del cacciatore, del contadino. […] quindi, bisogna credere, è chiaro, che la natura pensa anche agli adulti e che le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo […] perché se ne nutra e se ne serva per altri bisogni, ne tragga vestiti e altri arnesi. Se dunque la natura niente fa né imperfetto né invano, di necessità è per l’uomo che la natura li ha fatti, tutti quanti. (1256 a – 1256 b)
Gli interventi sull’ambiente derivano con una certa probabilità non solo dalle scoperte tecnologiche e dallo sviluppo delle abilità tecniche, ma anche dalla concezione che la natura crei tutto secondo una logica rigorosa avente come fine quello di consentire la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra.
Cinzia S. Bearzot, professoressa ordinaria di storia greca, nell’articolo Uomo e ambiente nel mondo antico pubblicato nel 2004 sulla «Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze» si concentra soprattutto su queste ultime righe dell’estratto. In esse, a suo avviso, è racchiusa l’essenza della legittimazione al controllo e prelievo delle risorse e alla trasformazione dello spazio e dell’ambiente a fini umani, e con essa la desacralizzazione della natura platonicamente intesa come tempio per la contemplazione della verità (si vedano le rr. 229A-B e rr. 258E-259B del dialogo del Fedro).
Io vorrei invece spostare l’attenzione su quanto scritto da Aristotele nelle ben più esplicative righe precedenti a proposito della vita del nomade:
I più pigri, perciò, sono nomadi (il cibo a costoro che se la passano in ozio viene dagli animali domestici, senza fatica, ma siccome è necessario che le greggi mutino sede a causa del pascolo, essi sono costretti a seguirle, quasi fossero agricoltori di un campo vivente). (1256 a, rr. 31–35)
Sebbene il filosofo non dica nulla in merito alla vita del contadino, il contenuto ne è intuibile per opposizione: sia il nomade sia il contadino vivono della terra e dei suoi frutti, ma il secondo a differenza del primo non conosce l’ozio, anzi è la fatica del lavoro a donargli dignità e libertà. Il contadino è ‘superiore’ al nomade, secondo Aristotele, poiché quest’ultimo è sempre costretto a piegarsi dinanzi al volere della natura. Difatti, il gregge pascola da un luogo ad un altro, e il nomade transuma assieme ad esso. Il contadino, di converso, la piega a sé in funzione di sé stesso e dei propri bisogni: da essere servo della natura, ne diviene il padrone.
Inoltre, la vita degli individui vegetali e animali viene oggettificata. Essi perdono cioè ogni finalità intrinseca e il loro ciclo vitale – nascono, crescono, si sviluppano e purtroppo alla fine muoiono – viene ridotto a mero dispositivo dotato esclusivamente di un fine fuori di sé. Il contadino, a differenza del nomade o del cacciatore-raccoglitore, trasforma gli esseri viventi dei quali si nutre in – direbbe Arthur Danto – «mere cose reali», cioè li riconosce come oggetti comuni il cui valore è determinato in base all’uso e allo scambio. Piante e animali acquisirono così un nuovo statuto ontologico che prevedeva che la loro finalità intrinseca venisse eclissata a favore di un fine fuori di sé: il sostentamento del fabbisogno (nutrizionale e non solo: estetico, bellico, affettivo, ecc.) della popolazione umana.
La tesi di Bearzot, pertanto, descrive in modo riduzionistico il rapporto aristotelico tra l’uomo e la natura. In essa si tiene conto soltanto di come la natura plasmi e renda possibile la vita umana, tralasciando invece quanto vi è di essenziale nell’intero pensiero aristotelico: la capacità dell’uomo di sostenere e plasmare sé stesso a partire dall’esercizio delle proprie potenzialità.
Conclusione
È ragionevole sostenere che sia stata proprio la reiterazione dell’ethos del contadino a far sì che l’uomo giungesse a contendersi il titolo di forza biogeomorfologica assieme al clima e ai fenomeni idrogeologici (terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami, ecc.).
Grazie alla tecnica (ad es.: l’agricoltura) e alle tecnologie (ad es.: la scoperta del fuoco), l’agency umana ha progressivamente acquisito un carattere di sempre maggiore pervasività. Oggi molto più che in passato il destino degli altri organismi viventi dipende dai sistemi antropici. Difatti, gran parte della natura ‘selvaggia’ è oggi incorporata all’interno di paesaggi antropici – urbani, rurali, ecc. – che co-evolvono assieme. Non solo: nell’intento di plasmare la superficie terrestre a seconda delle proprie necessità, l’uomo ha persino dato vita ad ecosistemi inediti, i cosiddetti novel ecosystems, che sono per l’appunto nuovi, cioè non conoscono precedenti nella storia geologica e biologica della Terra. Si tratta, dunque, di una riconfigurazione dello spazio, dell’ambiente e della biodiversità in forme che gli antichi non sarebbero mai stati in grado né di prevedere né di progettare, e ancor meno di realizzare.
Conoscere e comprendere le radici ideologiche di questi mosaici paesaggistici ibridi, la loro storia ed evoluzione, potrebbe forse consentirci di individuare, dinanzi ai problemi causati dal cambiamento climatico, nuove soluzioni etiche che sostengano la vita di tutti gli esseri viventi senza ricadere né nel tentativo di ripristinare una natura selvaggia e incontaminata, che oramai non esiste più, né nella visione fallace di un mondo che ciclicamente torna sempre ad essere in equilibrio, né nell’eliminazione o interruzione dei processi evolutivi dei paesaggi propriamente umani.
ROBERTA RANIERI
Ph.D. Student – University of Bari