La parola Amore mi fa e mi farà sempre un po’ paura. Quando si è piccoli è tutto così semplice; dire: “Ti voglio bene mamma, ti voglio bene papà” è facile, spontaneo. Forse perché non ne conosciamo bene il significato, o forse perché, quando cresciamo, impariamo che le parole hanno un peso, che usare un termine rispetto a un altro può cambiare una poesia. Gli ermetici ce lo insegnano bene il peso dato a ogni parola; quanto poche parole possano bastare a raccontare un’emozione a chi davvero sa leggere tra le righe. Lo studio dei canti della Divina Commedia anche. Le ore passate a commentare dieci terzine forse ci lasciano dentro la paura inconscia di usare determinate parole, di dire determinate cose. Così, un tempo, anche scrivere la lettera per Babbo Natale da leggere prima del cenone era facile, spontaneo. Crescendo diventa così complicato, quasi che la crescita ingigantisse anche quelle tre parole: “TI VOGLIO BENE”, tanto da non avere abbastanza fiato per dirle tutte insieme; e per quanto tu possa provarci, la tua bocca non si apre, e non dirle diventa più semplice. Ma perché?
Il tempo passato a scrivere, leggere e rileggere messaggi per poi non inviarli mi ha fatto arrivare a una conclusione: da piccola mi imbarazzavo quando alla recita di fine anno dovevo cantare di fronte a tutti i compagnetti e a tutti i genitori, e dire quelle note: “Do re mi fa sol la si do”, mentre tutti mi guardavano, diventava un’impresa; adesso provo imbarazzo a mostrare le mie emozioni, a scrivere o dire quel che provo, perché mi fa sentire fragile, vulnerabile.
Perché quando mettiamo per iscritto o diciamo parole che mostrano chiaramente i nostri sentimenti, ci sentiamo vulnerabili. Perché il nostro pensiero è la nostra forza più grande, o la nostra arma peggiore, ma finché quelle parole non vengono pronunciate o scritte, nessuno può leggerci dentro, e questo ci fa sentire protetti.
Perché quando cresciamo perdiamo un pezzo della nostra spontaneità, che nascondiamo e sopprimiamo ogni giorno di più, fino a farla scomparire, di fronte alla pretesa insensata di non farci giudicare, di dire quello che potrebbe piacere a chi magari non ci conosce.
Perché parlare di noi, usando le parole che provengono dal cuore e non quelle riformulate dal cervello, dopo un’accurata e non breve selezione, ci fa sentire come se dessimo a un’altra persona il potere di farci del male.
Perché abbiamo paura della risposta della persona con cui ci apriamo, che non sia veritiera, che non sia all’altezza delle nostre aspettative, o che semplicemente non ci sia.
Così, rifugiarsi nei nostri pensieri ci sembra la scelta più giusta, e quelle parole pensate, ma mai dette, rimbombano nella nostra testa per un tempo molto più lungo di quello impiegato a pensarle ed elaborarle.
E forse non è del tutto sbagliato, perché le parole hanno un loro peso, come tutte le cose, in fondo. Perché dietro una parola detta spesso si nascondono emozioni così forti che qualsiasi parola tu scelga, nessuna ti sembrerà mai abbastanza all’altezza; e forse ancora di più dietro quelle non dette. Il potere del silenzio: spesso talmente invadente e imbarazzante da costringerci a soffocarlo con parole vuote, prive di valore e significato; spesso accogliente, desiderato ma accompagnato da una leggera nota di nostalgia. Capace di far versare lacrime, o di dare risposte a chi tanto le ricercava in parole mai arrivate. A volte così spietato da trasformare incomprensioni in abissali distanze, unite da ponti di cristallo. Eppure la parola nasce per l’esigenza di comunicare con l’altro, per l’esigenza di sopravvivere. Impariamo a parlare prima ancora di saper scrivere; conosciamo il suono delle parole, sappiamo pronunciarle, ma non leggerle. Forse perché le cose semplici non sono le più scontate, ma quelle più importanti. Sono quelle accortezze che con il tempo si smettono di avere; quei gesti che si danno sempre troppo per scontati; quelle attenzioni che, quando non ci sono più, facciamo fatica a dimenticare; quelle che in fondo ci mancano di più.
A volte, o forse troppo spesso, diamo per scontato l’importanza e il peso che le parole hanno nella nostra quotidianità. Ci dimentichiamo di comunicare agli altri ciò che proviamo, quello che vogliamo, perché stiamo male; eppure è la prima cosa che insegniamo ai bambini: la comunicazione. E invece preferiamo troppo spesso il silenzio alle parole, forse perché quelle parole sono troppo difficili e dolorose da pronunciare, eppure così necessarie.
Allora cos’è davvero una parola? Quanto pesa dentro di noi?
Dal punto di vista prettamente fisico il peso è tangibile, siamo in grado di sentirlo e percepirlo. La forza peso che noi esercitiamo possiamo misurarla, ed è sempre la stessa; eppure possiamo sentirci più o meno leggeri. Quando siamo in acqua, per esempio, la spinta di Archimede e la densità dell’acqua ci aiutano a galleggiare; quando siamo in ascensore, se saliamo, ci sentiamo più pesanti; quando scendiamo, invece, ci sentiamo più leggeri, perché siamo su un sistema di riferimento non inerziale accelerato, e l’accelerazione, a seconda del suo verso, può alleggerirci o appesantirci.
Le parole hanno esattamente lo stesso potere: possiamo sfogarci scrivendo o parlando dei nostri problemi con altri; ricerchiamo negli altri parole gentili, parole di conforto che possano farci sentire meglio, che siano in grado di alleggerirci. Questo perché le parole sono curative, sono ciò che ci permette di raccontarci, di difenderci, di esprimerci. Ci permettono di sentirci amati, protetti, al sicuro. Sono ciò con cui guariamo le ferite più profonde, quelle dell’anima. Sono quelle che alimentano la nostra speranza, quelle a cui ci teniamo con più forza per non lasciarci andare. Sono i sorrisi accennati, le risate a crepapelle. Sono gli occhi che brillano, le lacrime che scendono, i cuori che battono all’impazzata.
Forse il dizionario è un vano ma pur sempre importante tentativo di racchiudere e dare un senso a qualcosa di tanto importante e complesso; il tentativo di aiutarci a comprendere ciò che non conosciamo, ciò a cui non riusciamo a dare una spiegazione. Ma ci sono parole come Amore a cui, in ogni caso, siamo noi a dover attribuire un significato.
Ecco perché mi fa paura, ecco perché continuerà a farmi paura. Ecco perché amo le parole.