Alla fine del primo decennio del XX secolo Adolphe Clément-Bayard, imprenditore, aveva ormai fatto fortuna. Affacciatosi con intraprendenza sul mercato automobilistico da un’officina della rue Brounel a Parigi, le sue autovetture erano presto divenute protagoniste della motorizzazione francese. Eppure, conquistata la strada, l’ingegno non si fermò e converse invece ad espugnare l’ignoto e inospitale dominio aereo. Fu così che a partire dal 1908 la quiete della campagna dell’Oise venne turbata da un grandioso e imponente cantiere per la costruzione di dirigibili. L’operazione, redditizia per il Clément-Bayard, non dovette però andare troppo a genio ai suoi vicini. Monsieur Coquerel aveva acquistato un terreno nel 1910 proprio a Trosly-Breuil, la località dove Clément-Bayard innalzava in volo i suoi enormi marchingegni volanti. L’astuto Coquerel non si perse però d’animo, e pensò di poter sfruttare la situazione a proprio vantaggio; al limite della sua proprietà piantò lunghe pertiche nel terreno, culminanti con una lancia metallica, per meglio insidiare il decollo e l’atterraggio dei possenti ma delicati dirigibili.
Se non fosse stato tratto da un repertorio di giurisprudenza, questo caso sarebbe degno del più curioso libro di fiabe per bambini o del più sofisticato dei racconti comici: eppure in questa vicenda assai paradossale s’insinua uno dei concetti più dibattuti e controversi della riflessione giuridica dell’ultimo secolo.
Duramente osteggiato o con forza propugnato, l’abuso del diritto è stato il banco di prova di molti dogmi, di teorie e convincimenti della scienza giuridica continentale. E pur essendosi fortemente sviluppato in Francia, ebbe modo di diffondersi inesorabilmente nelle altre esperienze ordinamentali, vedendo riconosciuta, in alcuni casi, anche una autonoma positivizzazione (per esempio nel § 226 del BGB, il codice civile tedesco).
Non si può esercitare un diritto contraddicendo la ragione per cui il diritto medesimo fu posto: questa, in estrema sintesi, la tesi di fondo.
L’industrializzazione e l’imporsi della società come pluralista scalfirono una concezione monolitica dei diritti soggettivi – e delle prerogative spettanti ai titolari –, palladio dell’individualismo e del potere sulla volontà altrui. L’assolutezza dei diritti è sostituita dalla relatività; essi non possono più dirsi poteri incondizionati, ma sono piuttosto prerogative causali, ossia non esercitabili per uno scopo qualsiasi, magari riprovato dal sistema di valori che ogni ordinamento giuridico in una data epoca assorbe e fa vivere attraverso principî.
Tentativi di inquadramento e definizione dell’abuso del diritto hanno affollato le pagine delle riviste, riempito le colonne delle enciclopedie e animato plurimi convegni: sarebbe superfluo e pretestuoso ripercorrerli. Più proficuo sembra invece cercare di capire il senso di un concetto; sforzarsi di indagare quale significato possa avere una teoria così risalente per il giurista d’oggi.
Anzitutto l’abuso è sintomatico di un approccio: considerare i diritti come causali vuol dire riconoscere che «esistere è coesistere», e che l’ordinamento giuridico non può accordare tutela e protezione a un esercizio delle prerogative soggettive condotto in spregio dei principî e dei valori.
Una tale impostazione richiede la formulazione di giudizî sull’esercizio dei diritti. Intendendo l’interpretazione giuridica come argomentazione, chi compie questa operazione ermeneutica ha davanti a sé argomenti e contro-argomenti. Per poterli coerentemente selezionare occorrono quindi dei veri e propri criterî argomentativi come, appunto, quello dell’abuso; essi permettono di confrontarsi con la concretezza dell’agire umano, nelle sue disparate forme di manifestazione, e sono testimoni della doverosità di andare oltre l’astratta «cornice attributiva» di un diritto[1].
L’urgenza di riaffermare «che i diritti sono prodotti sociali»[2] si ripropone con insistenza ancóra oggi: in un’epoca in cui sono esponenzialmente aumentate le possibilità date all’individuo di agire impattando sulle situazioni altrui – e, evidentemente, di nuocere l’altro – sembra irrinunciabile ammettere che in quanto i diritti derivano dalla comunità, esigono un costante consenso sociale sul loro esercizio.
Se agli albori del secolo breve era la proprietà – e, in maniera particolare, la proprietà fondiaria – il mezzo più versatile per abusare del proprio diritto, imponendo la volontà ad altri in un padroneggiamento egoistico dell’io, unico, proprietario di sé stesso[3], così non è nel presente: molte situazioni di potere si prestano oggi a soddisfare i desideri dell’uomo insipiente, animato dall’odioso movente dell’intenzione di nuocere, che insidia ab imis fundamentis un sistema edificato sul principio di solidarietà. Non occorre arrivare a iperboliche manifestazioni della volontà di causar danno al prossimo, come fece Monsieur Coquerel nell’affaire Clément-Bayard con le sue imponenti installazioni, per entrare in collisione con lo spirito del diritto oggettivo. Ogni prerogativa è suscettibile di essere deviata: non solo in àmbito tributario (ove l’abuso è espressamente menzionato dalla l. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10 bis), ma anche nel campo dell’esercizio del diritto di sciopero e delle numerose libertà consacrate dal costituzionalismo moderno. E se non può certo ammettersi che il titolare del diritto debba sottostare a penetranti e invadenti limitazioni della sua volontà, allo stesso tempo un orientamento consapevole della necessità di far vivere l’assiologia costituzionale non permette di certo che la libertà dell’uno sia insindacabile quando il suo esercizio confligge e impatta, negativamente, sui terzi.
Una concezione dei rapporti tra privati ispirata al bellum omnium contra omnes è difficilmente accettabile; eppure uno sguardo realista suggerisce di non rifugiarsi in un ideale irenismo. «Se è vero, allora, che la vita del diritto si riduce a una lotta, è quantomeno opportuno che non sia una lotta tra il vaso di terracotta e il vaso di ferro e che le armi messe a disposizione dai poteri pubblici ai combattenti non siano armi avvelenate, e che possano essere utilizzate con saggezza e conformemente alla regola del gioco, che è una regola inevitabilmente sociale»[4]: superflua sarebbe ogni aggiunta a una così chiara sintesi del senso più profondo dell’esperienza giuridica, da intendere anzitutto come relazione in cui «ciascun uomo può riconoscere l’altro e può essere riconosciuto dall’altro»[5] come persona, portatrice di interessi, di situazioni esistenziali e, soprattutto, dell’aspirazione a vivere in istituzioni giuste[6].
[1] Si vedano Cass. Civ. Sez III, 18 settembre 2009, n. 20106, in Giust. civ., 2009, I, p. 2671 ss.; App. Firenze, 14 giugno 2014, n. 829 in De Jure; Trib. Milano, Sez. spec. Impresa, 1° febbraio 2016, n. 1344 o, ancóra, in materia amministrativa, Cons. St., Sez. IV, 17 maggio 2010, n. 3129 e Cons. St., Sez. III, 17 maggio 2012, n. 2857, ambedue in De Jure.
[2] L. Josserand, De l’esprit des droits et de leur relativité Théorie dite de l’abus des droits, Parigi, Dalloz, 1939, p. 320.
[3] M. Stirner, L’unico e la sua proprietà (1844), a cura di S. Giametta, Milano, Bompiani, 2018, p. 435 ss.
[4] Argomentava così suggestivamente L. Josserand, De l’esprit des droits et de leur relativitè. Théorie dite de l’abus des droits, Paris, Dalloz, 1939, p. 10.
[5] B. Romano, Filosofia del diritto, Bari-Roma, Laterza, 2002, p. 110.
[6] P. Ricoeur, Le juste, Paris, Esprit, 1995, p. 17; cfr., Id., Soi-même comme un autre, Paris, Seuil, 1990, passim.
Una bibliografia essenziale
Tra i numerosi contributi sull’abuso del diritto rimangono imprescindibili quelli di Louis Josserand, docente nella facoltà di Lione: L. Josserand, De l’abus des droits, Paris, Rousseau, 1905; L. Josserand, De l’esprit des droits et de leur relativité Théorie dite de l’abus des droits, Parigi, Dalloz, 1927 e 1939; L. Josserand, Essai de theologie juridique, II, Les mobiles dans les actes juridiques du droit privé, Parigi, Dalloz, 1928. Della prima opera è pure disponibile una traduzione in lingua italiana L. Josserand, L’abuso dei diritti (1905), trad. it. a cura di Loredana Tullio, Napoli, E.S.I., 2018. Di primario rilievo rimane comunque la dottrina francese; si possono ricordare, in questa sede:
Dal lato della dottrina italiana, senza pretesa alcuna di esaustività, si rinvia a: G. Noto Sardegna, L’abuso del diritto, Palermo, Reber, 1907; M. Rotondi, L’abuso del diritto, in Riv. dir. civ., 1923; V. Giorgianni, L’abuso del diritto nella teoria della norma giuridica, Milano, Giuffrè, 1963; G. Levi, L’abuso del diritto, Milano, Giuffrè, 1993; P. Rescigno, L’abuso del diritto, Bologna, Il Mulino, 1998; N. Lipari, Ancora sull’abuso del diritto. Riflessioni sulla creatività della giurisprudenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., I, 2017; N. Lipari, L’abuso del diritto, in Tre lezioni magistrali (2016-2017), Sette città, Viterbo, 2017; U. Breccia, L’abuso del diritto, in Diritto privato 1997, Padova, Cedam, 1998; G. Pino, L’abuso del diritto tra teoria e dogmatica (precauzioni per l’uso), in G. Maniaci (a cura di), Eguaglianza, ragionevolezza e logica giuridica, Milano, Giuffrè, 2006; L. Di Nella, G. Perlingieri, A proposito della traduzione italiana, in L. Josserand, L’abuso dei diritti (1905), trad. it. a cura di Lo. Tullio, Napoli, E.S.I., 2018; G. Perlingieri, Profili civilistici dell’abuso tributario. L’inopponibilità delle condotte elusive, E.S.I., Napoli, 2012; A. Astone, Il divieto di abuso del diritto, Milano, Giuffrè, 2017; V. Velluzzi, L’abuso del diritto. Teoria, storia e ambiti disciplinari, Pisa, ETS, 2012; G. Grisi (a cura di), L’abuso del diritto, Roma, Roma TrE-Press, 2017. Il caso Clément-Bayard, citato in apertura, è tratto da Trib. Civ. Compiègne, 19 febbraio 1913, in D. P., 1913, II, p. 177 con nota di L. Josserand; si veda anche D. P. 1917, I, p. 79 per la decisione della chambre des requêtes della Corte di cassazione. Per altri casi noti cfr.: D. P., 1923, I, p. 172; D. P., 1856, II, p. 10; in D. P., 1913, II, p. 177. N.B.: D.P. = Dalloz périodique