Quest’anno, com’è ormai ben noto, il Premio Nobel per la Fisica ha formalmente riconosciuto il valore rivoluzionario delle reti neurali artificiali (ANN), un modello al centro del machine learning moderno che ha introdotto un nuovo approccio all’elaborazione dei dati e all’intelligenza artificiale in generale. Ma cosa significa davvero questo riconoscimento per noi e per il futuro dell’IA? Le reti neurali artificiali, ispirate in parte alle connessioni neuronali biologiche, hanno aperto la strada a sistemi capaci di apprendere e adattarsi; tuttavia, il paragone con il cervello umano si ferma qui.
Ogni “neurone” artificiale è, in realtà, una funzione matematica che riceve dati in ingresso e li trasforma in output attraverso operazioni specifiche, ottimizzate per risolvere problemi ben definiti. Le ANN si sono evolute dai primi percettroni negli anni ‘40, reti neurali semplici progettate per riconoscere pattern lineari, fino a raggiungere le architetture stratificate di oggi. Queste ultime consentono di scomporre problemi complessi in rappresentazioni successive e gerarchiche: i livelli iniziali individuano caratteristiche di base, mentre quelli successivi integrano informazioni più approfondite. Questo tipo di elaborazione permette, per esempio, il riconoscimento di immagini con una precisione sorprendente, emulando certi meccanismi della percezione visiva senza mai trascendere i vincoli del calcolo matematico.
Negli anni ’80, John Hopfield introdusse un modello di rete neurale in grado di imitare il principio della memoria associativa, ovvero la capacità di richiamare informazioni sulla base di somiglianze con esperienze passate, segnando un punto di svolta nella ricerca sull’intelligenza artificiale. La rete di Hopfield non si limita a memorizzare dati ma organizza le informazioni in configurazioni stabili utilizzando un concetto mutuato dalla fisica statistica, le cosiddette “funzioni di energia”, che misurano la stabilità degli stati della rete. Ogni input viene elaborato per ridurre il valore ottenuto con questa funzione, portando la rete a uno stato di minima energia che corrisponde a un pattern memorizzato. Questo metodo permette di richiamare informazioni anche a partire da input incompleti o distorti, un sistema di recupero simile, per certi aspetti, a quello umano. Sebbene limitato rispetto alle reti neurali moderne, il modello di Hopfield ha rappresentato una prima formulazione di rete capace di apprendere e ricordare pattern strutturati, aprendo la strada a metodi di riconoscimento in sistemi di intelligenza artificiale ancora attuali. Le sue idee hanno influenzato profondamente la comprensione dei processi di memoria associativa e hanno gettato le basi per future ricerche sull’apprendimento non supervisionato.
Qualche anno più tardi, Geoffrey Hinton diede un impulso decisivo al campo delle reti neurali applicando con successo la retropropagazione dell’errore, una tecnica già nota che consente alle reti di “apprendere” da ogni iterazione, calcolando e aggiornando i parametri della funzione obiettivo. Questo metodo permette di misurare l’errore nell’output e di trasmettere questa informazione a ritroso attraverso gli strati della rete. Utilizzando i gradienti, cioè calcolando la direzione in cui ogni parametro deve essere modificato per ridurre l’errore, la rete è in grado di aggiornare i pesi dei nodi per ridurre progressivamente l’errore e migliorare le prestazioni del modello a ogni ciclo di addestramento. Grazie a questa innovazione fu possibile costruire reti più profonde e precise, capaci di risolvere problemi complessi come la classificazione visiva, il riconoscimento vocale e la rilevazione di anomalie. La retropropagazione gettò le basi per il deep learning, trasformando le reti neurali in strumenti di precisione adottati su larga scala in settori che spaziano dalla diagnostica alla traduzione automatica. Inoltre, le ricerche di Hinton dimostrarono che, con l’aumento della capacità computazionale e dei dati disponibili, le reti neurali possono superare le prestazioni del cervello umano in specifici compiti, sollevando nuove domande sulle potenzialità dell’IA.
Oggi, il machine learning ha sviluppato una varietà di architetture di rete, ciascuna con applicazioni specifiche che stanno rivoluzionando diversi settori. Le reti convoluzionali (CNN), per esempio, sono ottimizzate per elaborare immagini, identificando caratteristiche come forme e bordi nei livelli iniziali e integrando queste informazioni nei livelli successivi per distinguere oggetti in modo dettagliato. Esse sono alla base dei sistemi di visione artificiale, del riconoscimento facciale e persino delle auto a guida autonoma. Le reti ricorrenti (RNN), in particolare le LSTM (Long Short-Term Memory), capaci di gestire dati sequenziali, si adattano meglio a compiti che richiedono una continuità di contesto, come la traduzione linguistica, la sintesi vocale e l’analisi predittiva di serie temporali. Le reti generative avversarie (GAN), introdotte da Ian Goodfellow nel 2014, hanno ampliato ulteriormente il campo, impiegando due reti che competono fra loro: una genera dati realistici, l’altra valuta e perfeziona la loro somiglianza ai dati reali.
Eppure, nonostante questi straordinari progressi, rimane chiara una differenza sostanziale tra le reti neurali artificiali e il cervello umano. Mentre il nostro cervello costruisce ed elimina connessioni continuamente, rimodellando il proprio tessuto in risposta a nuove esperienze – una caratteristica nota come neuroplasticità – le ANN non possono che reiterare un algoritmo preimpostato. Ogni decisione è il risultato di un processo deterministico, privo di coscienza o di adattabilità autonoma. Benché i recenti sviluppi nelle reti neurali dinamiche e nei modelli adattativi cerchino di emulare questa flessibilità, la complessità e la capacità di apprendimento del cervello umano restano un traguardo lontano. Le sinapsi biologiche non solo trasmettono segnali elettrici, ma sono influenzate da una miriade di processi biochimici che regolano l’umore, l’attenzione, la memoria e l’emozione – elementi che, al momento, sono al di fuori della portata delle reti artificiali.
Possiamo immaginare un futuro in cui la comprensione della neuroplasticità e l’apprendimento non supervisionato permettano alle reti neurali di avvicinarsi ai meccanismi del cervello, sviluppando sistemi in grado di adattarsi autonomamente, apprendere senza supervisione diretta e generalizzare conoscenze in modi oggi inimmaginabili. Tuttavia, nonostante i progressi tecnologici, la distinzione tra imitazione e reale comprensione rimane fondamentale: l’IA elabora dati, riconosce schemi e fa previsioni, ma non “comprende” nel senso umano del termine – anche se si potrebbe argomentare che, in fondo, la nostra stessa comprensione non è che un processo estremamente complesso di calcoli e risposte biochimiche.
Questo ci invita a riflettere su quale ruolo vogliamo attribuire all’intelligenza artificiale nella nostra società e come desideriamo integrarla nelle nostre vite. La recente assegnazione del Premio Nobel sottolinea l’importanza e il potenziale delle reti neurali artificiali, ma ci ricorda anche che la strada verso un’intelligenza artificiale generale (la cosiddetta AGI), capace di comprendere e non solo di elaborare, è ancora lunga, e la sfida non è solo tecnologica, ma anche filosofica ed etica. Certamente ora celebriamo questi successi, ma dobbiamo anche riconoscere i limiti intrinseci di queste macchine.
- Hopfield, J. J. (1982). Neural networks and physical systems with emergent collective computational abilities. Proceedings of the National Academy of Sciences, 79(8), 2554-2558.
- Rumelhart, D. E., Hinton, G. E., & Williams, R. J. (1986). Learning representations by back-propagating errors. Nature, 323, 533-536.
- Goodfellow, I. et al. (2014). Generative Adversarial Networks.
- Hinton, G. (2007). Learning multiple layers of representation. Trends in Cognitive Sciences, 11(10), 428-434.
- LeCun, Y., Bengio, Y., & Hinton, G. (2015). Deep learning. Nature, 521, 436-444.