La nostra mente non si è mai limitata a processare la realtà in maniera asettica e istintiva. L’essere umano è sopravvissuto e ha dominato il suo ambiente grazie alla sua insana capacità di elaborare, scegliere e distribuire dati all’apparenza confusi, creando ragione e razionalità, ben prima dell’avvento degli elaboratori elettronici.
Il dato, inteso quale unità minima di conoscenza empirica, è dunque un vecchio amico, fatto della stessa sostanza dei concetti e delle idee. Ogni fenomeno può essere oggetto di un dato, fin quando sia possibile descriverlo in termini oggettivi e univoci.
Ogni interazione, gesto o decisione produce, quindi, inevitabilmente una traccia, un riflesso informativo che, se analizzato, è in grado di raccontare chi siamo, cosa pensiamo, cosa desideriamo. Questo rende il dato personale qualcosa di profondamente connesso alla nostra identità, non solo come entità statica, ma come flusso dinamico e costante. È un puzzle complesso che, se assemblato, è capace di definire la nostra personalità, le nostre inclinazioni e persino le nostre fragilità.
È dunque opportuno approcciare all’idea di dato personale [1 Definizione GDPR] come entità astratta e analogica, che assume solo concretezza tecnica nella forma scritta o digitale ma che esiste a prescindere da essa.
Il dato personale, in questo senso, si colloca a metà strada tra ciò che appartiene al privato e ciò che inevitabilmente entra in contatto con il mondo esterno. È il ponte invisibile che collega il nostro io interiore con la società, il risultato della nostra interazione con il contesto che ci circonda. Questa dualità – tra intimo e pubblico, tra statico e dinamico – è il punto di partenza per comprendere le criticità di un mondo in cui i dati si generano e si scambiano con una facilità mai sperimentata prima.
Se il dato personale può essere considerato l’atomo della nostra identità, i Big Data rappresentano una sorta di cosmologia sociologica: una mappa sterminata di interazioni e schemi che trascendono il singolo per abbracciare l’umanità in blocco. I Big Data, in questo senso, non esistono come entità fisiche o materiali, ma come fenomeno interpretativo: sono l’inferenza, la correlazione, il tentativo di ricavare ordine dal caos attraverso la lente della matematica. Ma questo ordine, apparentemente collettivo e anonimo, non può fare a meno di ancorarsi al dato personale, che diviene il primo e l’ultimo tassello di questo universo digitale.
La differenza tra Big Data e personal data non è soltanto quantitativa, ma ontologica. I dati personali, così intimi e legati all’individuo, raccontano la singolarità dell’essere umano, quel mistero irriducibile che sfugge alla generalizzazione. Ogni nome, ogni scelta, ogni silenzio registrato porta con sé l’eco dell’esistenza individuale, il peso irripetibile di ciò che è unico. I Big Data, al contrario, cercano di dissolvere questa singolarità in una statistica, trasformando il particolare in un pattern, il volto in una sagoma numerica.
Questa trasformazione non avviene senza conseguenze.
Nel momento in cui l’individuo diventa un punto su un grafico, una variabile in un’equazione, si corre il rischio di smarrire ciò che lo rende unico: la sua libertà, la sua dignità, il suo spazio interiore. L’algoritmo non conosce dubbi, non contempla pause, non vede ciò che è al di là dell’input. Il dato personale è intrinsecamente vulnerabile proprio perché porta in sé il peso di questa umanità: è prezioso per ciò che rappresenta, e il suo valore economico è solo un riflesso.
Nel rapporto tra Big Data e personal data si gioca quindi una partita filosofica prima ancora che giuridica: è la lotta per mantenere l’individuo al centro di un sistema che tende a dissolverlo nel collettivo, per riaffermare il valore del singolo contro la tentazione del controllo totale. Se i Big Data rappresentano la mente razionale del mondo digitale, i dati personali ne sono il cuore pulsante: senza di essi, l’intero sistema crollerebbe, ma dimenticare la loro natura intima significherebbe tradire l’essenza stessa dell’essere umano.
Queste valutazioni sono attualmente all’attenzione di quei soggetti che raccolgono e analizzano dati su base giornaliera, dalle grandi multinazionali tecnologiche alle Pubbliche amministrazioni, ed è palpabile la tensione tra l’istinto capitalista al massimo sfruttamento delle risorse e quello più arcaico di autoconservazione, che si esprime nel desiderio di riservatezza.
Il legista più attento avrà già trovato buona pace nell’attuale assetto normativo civile in materia di dati, l’influenza europea ha maturato l’importanza della riservatezza e del trattamento responsabile, della trasparenza e dell’interesse legittimo, facendo leva sul consenso dell’utente. Ma come verranno attuate le tutele di questo consenso così astratto? Come può un’esternalizzazione di volontà fermare un flusso tanto poderoso, una volta aperto? Ci si può affidare alla bontà degli uomini?
Il dato, soprattutto quello conservato in forma digitale, possiede una caratteristica che nell’ottica economica ha solo carattere tecnico, ma che nasconde significati giuridici ancora inesplorati.
Il dato può essere nascosto, ma una volta ottenuto non c’è modo di sottrarlo alla conoscenza di altri.
L’escludibilità di una risorsa è un elemento fondante della proprietà liberale, e non incontra troppi problemi quando deve essere applicata in ambito reale, tuttavia il dato informatico non è solo un oggetto: può essere copiato, diffuso e alterato in pochi secondi e senza lasciare tracce, vanificando ogni sforzo di tutela in un unico minimo atto di incuria o di dolo. Questa semi-escludibilità non consente un controllo adeguato sui nostri dati digitali come accade invece sui beni, e soffre di carenze concettuali e tecnologiche che suggeriscono una più stretta intesa tra scienza giuridica e informatica.
La natura semi-escludibile del dato digitale, la sua capacità di replicarsi indefinitamente e la difficoltà di imporre barriere materiali alla sua circolazione, rendono la protezione crittografica qualcosa di più di un semplice strumento tecnico: essa diviene un vero e proprio obbligo morale e giuridico. Il segreto, inteso come argine essenziale alla diluizione identitaria dell’individuo, prende corpo in chiavi, algoritmi e sistemi.
Ma non si tratta solo di perimetrare un confine, quanto di sancire il diritto dell’essere umano a preservare una porzione inviolabile del proprio sé. La crittografia diviene così non solo un’infrastruttura tecnologica strategica a tutela di diritti fondamentali, ma realizza direttamente interessi di rango costituzionale, primo tra tutti l’autodeterminazione.
Nella password, nella chiave asimmetrica o nel token di sicurezza, si cela il potere dell’individuo di agire come padrone dei propri dati. La tecnologia offre strumenti potentissimi, capaci di generare una marea di dati utili e intimi, che possono rappresentare un valore affettivo, storico e probatorio non diverso da altri oggetti quotidiani. Qui il ruolo della persona è cruciale: la robustezza di una password, la prudenza nel non cedere a tentazioni di semplicità e comodità (come “123456” o la data di nascita), rappresentano un atto di responsabilità civile. [classifica password più utilizzate]
A fronte di tecniche crittografiche sempre più evolute, spiccano metodologie avanzate di cifratura omomorfa, curve ellittiche e sistemi quantistici ma anche più basilari come l’autenticazione a due fattori: tutte soluzioni nate per mantenere il segreto in un mondo ostile. Tuttavia, questi strumenti non sono di per sé un riparo assoluto, ma dipendono dalla diligenza umana e dalla comprensione del valore intrinseco dell’informazione.
Non tutti i segreti sono uguali. Alcuni segreti sono “rilevanti” in termini strategici: pensiamo ai dati sensibili di uno Stato, ai progetti industriali di un’azienda, alle informazioni capaci di influenzare mercati o conflitti. Altri segreti sono “dovuti”, come quelli che garantiscono la privacy di ogni individuo, la dignità di un paziente nell’ambito sanitario, la confidenzialità delle relazioni personali o professionali. Vi sono poi segreti “voluti”, scelte individuali di creare stanze private all’interno del mondo digitale, nicchie di riservatezza su preferenze, passioni, pensieri inconfessati.
La legge e la tecnica, qui, si dovrebbero incontrare nel tentativo di garantire che ognuno possa definire i propri confini e difenderli con strumenti adeguati.
La perfezione matematica della crittografia si scontra infatti con la fallibilità umana. Phishing, ingegneria sociale, manipolazione emotiva e psicologica: queste armi invisibili possono superare barriere tecnologiche imponenti con la semplicità di un messaggio ingannevole. Il punto debole del sistema non è quindi il codice, ma colui che lo utilizza.
Qui emerge la necessità di un approccio culturale e formativo: non basta imporre norme, non basta affidarsi all’infallibilità della macchina. Occorre educare alla consapevolezza, affinché l’utente finale non sia il cavallo di Troia delle più sofisticate violazioni digitali.
Il diritto penale ha, tra i tanti, per primo, il ruolo di imporre un limite al sadismo della civiltà, ma per sua natura rifiuta l’analogia come strumento interpretativo: non si possono punire comportamenti non espressamente previsti dalla legge e non si può lasciare troppo spazio di manovra al giudice quando si tratta di limitazioni della libertà. Tuttavia, quando il mondo digitale esplode in una costellazione di fenomeni nuovi, il giurista si interroga su come interpretare reati concepiti per l’universo fisico nel contesto sfuggente del cyberspazio.
Si tratta di una traduzione di concetti: l’“accesso abusivo” in un sistema informatico [testo articolo] non è forse il corrispettivo digitale della violazione di domicilio [testo articolo]? Ma l’analogia è vietata: serve, dunque, al netto delle poche fattispecie già espresse in maniera disorganica, un adeguamento normativo che sappia cogliere le peculiarità della rete, scacciando la tentazione di forzature interpretative.
Il metaverso non è soltanto una “dimensione virtuale” priva di conseguenze materiali. Esso produce responsabilità, danni reputazionali, perdite economiche e traumi psicologici reali. Capire che il digitale è un’estensione della realtà, non una sua irreale proiezione, permette al legislatore di costruire sistemi normativi più adatti, che siano rispettosi dei principi di legalità e tassatività, ma anche capaci di contenere fenomeni nuovi. [esempio frodi tramite NFT o le molestie negli spazi di realtà virtuale condivisi]
La tecnologia corre più veloce della norma, e il legislatore arranca su un terreno sconosciuto. Il risultato è un gap temporale: mentre le infrastrutture digitali si evolvono in tempo reale, la legge richiede riflessione, dibattito, procedimenti lenti. L’incertezza giuridica che ne consegue apre spazi d’ombra, in cui la criminalità informatica prospera indisturbata. [report cybersicurezza 2024]
La sfida è quella di creare norme che non siano rigide fotografie dell’oggi, ma strumenti dinamici, flessibili, capaci di adattarsi a mutamenti continui. Una sfida non banale, che evoca il concetto di diritto come tessuto vivente.
L’attuale legislazione italiana, come quella di molti altri Paesi, punta sul reato di “accesso abusivo” per sanzionare chi vìoli sistemi informatici altrui. Ma cosa succede quando il perimetro del “sistema” si dilata, quando la distinzione tra spazio digitale privato e pubblico si confonde, e quando la tecnologia rende obsoleti i concetti di luogo, tempo e possesso?
Le vicende di cronaca, come i dossieraggi abusivi [fonti dossieraggi 2024] o i data leak finalizzati all’estorsione [esempi ransomware 2024], mostrano che la norma esiste e resiste, ma non senza sforzo. Rimangono problemi interpretativi e lacune che solo un intervento normativo strutturale e uno sguardo prospettico possono colmare.
La nostra nazione sta sperimentando un aumento esponenziale di attacchi informatici su infrastrutture critiche, aziende e enti pubblici. I ransomware bloccano interi comparti produttivi, i data breach mettono in ginocchio catene logistiche e di servizi essenziali [blocco Nexi]. Gli ultimi dati mostrano una crescita costante del numero e della complessità delle intrusioni, evidenziando una vulnerabilità sistemica che non può più essere ignorata. [dati 2024]
L’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale (ACN) rappresenta un tentativo organico e strutturato di difesa cibernetica. Ma i buoni propositi devono fare i conti con la realtà di un mercato del lavoro in cui gli esperti di sicurezza informatica scarseggiano, le competenze si formano lentamente e la burocrazia rallenta senza apportare alcun beneficio.
Il vero problema non è soltanto l’assenza di strumenti, ma la difficoltà di coordinamento, il deficit culturale e la mancanza di un approccio olistico che coinvolga tutti gli attori interessati: dall’impresa al cittadino, dalle università al settore pubblico.
Non basta un firewall di Stato se il singolo cittadino non è consapevole dei rischi. Ogni smartphone lasciato incustodito, ogni password debole, ogni link sospetto cliccato è una crepa nel muro difensivo. La cyber-sicurezza non è un mero esercizio accademico né un affare militare: è una pratica sociale condivisa, che richiede educazione, formazione, capacità critica.
La costruzione di una “cultura del dato” è il primo passo verso una società più resiliente, in cui non vi sia solo la reazione a un attacco, ma anche la prevenzione sistemica.
La legge è uno strumento fondamentale, ma da sola non basta. Contro un fenomeno globale come il cybercrime, l’ordinamento giuridico del singolo Stato è una “spada corta” che difficilmente raggiunge un bersaglio mobile e disperso. Qui la cooperazione internazionale, gli accordi multilaterali, la condivisione delle informazioni tra Paesi e l’impiego sapiente di nuove tecnologie investigative saranno essenziali.
Serve anche un ripensamento degli strumenti normativi, incentivando un uso consapevole dell’intelligenza artificiale, con piattaforme di scambio dati sicure, con protocolli comuni di reazione agli incidenti informatici.
Creare una cultura del dato significa comprendere che ogni informazione è portatrice di senso e di valore, che la tecnologia è strumento e non fine, e che l’etica non può rimanere a margine delle scelte strategiche. L’etica del dato non è una cornice decorativa, ma la struttura portante di un’architettura sociale che riconosce l’individuo come centro e non come mezzo.
In questo senso, la formazione continua, l’aggiornamento delle competenze tecniche e giuridiche, la riflessione filosofica e sociale diventano esponenti di un ecosistema digitale sano.
Ognuno è custode di un tassello di questo mosaico nello “spazio digitale”.
Le prossime frontiere – dall’Intelligenza Artificiale al Quantum Computing – promettono di rivoluzionare ancora una volta il mondo dei dati. La possibilità di decifrare crittografie un tempo ritenute inviolabili, o di simulare identità digitali con una precisione mai vista, impone un ripensamento costante del rapporto tra individuo, società e informazione.
Non vi è una soluzione definitiva, ma un percorso di adattamento continuo. Il diritto dovrà acquisire elasticità, i tecnici dovranno imparare a comunicare con i giuristi, i cittadini dovranno comprendere il valore del dato come pietra angolare della loro libertà.
Solo così, in un dialogo tra sapere umano e potenza della macchina, tra etica e innovazione, sarà possibile costruire un futuro in cui il segreto, la persona e la società trovino una pace all’interno dell’immenso flusso digitale che ormai ci avvolge.